domenica 10 dicembre 2017

Non si sevizia (un) Paperino: quando Fulci raccontò la strage di Bitonto


Tra il 1971 e 1972, a Bitonto, cinque bambini  furono trovati in un pozzo, senza vita. Ancora nessun colpevole per la tragedia, da allora. 
Sono passati quarantacinque anni e, come tutti i delitti irrisolti, vengono lasciati marcire nelle carte e nella memoria occultata da altri eventi, soprattutto quando si parla di un luogo ove la povertà faceva da padrona, rendendo quasi naturale e legittima l’uccisione di esseri umani. 
Tuttavia, il genio di Lucio Fulci, prolifico regista romano, capace di  “terrorizzare” pubblico quanto tutti i generi di cinema da lui toccati, con il suo stile crudo e schietto prese ispirazione da quel fatto terribile e realizzò il capolavoro “Non si sevizia un Paperino”. 


Il film fu, ed è tuttora, decretato come la summa stilistica di Fulci, ritenuto fondamentale per il giallo italiano, ove convivevano, con sapienza - nell'habitat horror- neorealismo, commedia, thriller e spy story,  Il regista riuscì a smascherare - o forse meglio a creare - quell’assassino mai trovato, con una chiave apparentemente anticlericale e immorale e apparentemente facile. Le ambientazioni furono adattate in un contesto rurale e povero dell’estremo sud lucano e tale scelta, costituiva una novità nel panorama del giallo cinematografico di quel tempo.


L'opera inizia con la ripresa del paesaggio di Accendura, luogo dal nome fittizio, adattato dal nome di Accettura, un paesino in provincia di Matera. Fulci, tuttavia, girò poche scene in Basilicata e molti esterni furono girati in Puglia e a Pietrasecca, in provincia dell'Aquila, nonostante l’anima verace e grezza di personaggi e ambienti, rispecchiassero in toto quella lucana.
Il paesaggio di verdi colline interrotte dal ponte di cemento  sembra squarciare la morbidezza e l’innocenza della natura. Tale contrasto di elementi fu coadiuvato dal compositore Riz Ortolani, le cui colonne sonore univano dolcezza della melodia alla crudeltà delle immagini.
L’inizio del film mostra il disseppellimento dello scheletro di un neonato da parte della “maciara” di Accendura, interpretata da una straordinaria Florinda Bolkan, già nota per la sua parte precedente nel giallo cult  “Una lucertola con la pelle di donna”, del 1977. 




Nella scena successiva compaiono dei bambini, in chiesa, intenti a pregare. Per quei bambini, la preghiera è una “veste” che maschera gli impulsi ormonali di adolescenti in erba. Sono attratti dalle donne, dalle prostitute, dal sesso, dalle riviste pornografiche. Non a caso questo film fu ampiamente criticato e ritenuto vergognoso. 
Un’opera dissacrante, cruda, dove non si risparmiava nessuna pietà sulla ingenua figura del bambino, ora intento a pregare, ora intento a giocare al pallone, ora intento a essere curioso sul sesso. 
I bambini non erano più bambini e questo, Fulci, teneva a chiarirlo : dalle forti Gauloises fumate dai minori, alle pulsioni di spiare il sesso fra adulti, sino alla più particolare ripresa delle fattezze di un bambino che, avviandosi verso l’uscita dalla chiesa, non è più bambino, ma adulto. 
Si rovescia ogni stereotipo, pur mantenendo il sacrifico dei bambini della storia originale: i bambini non più bambini e, gli adulti, visti come orpelli piagnucolanti e subdoli. 
I bambini, tuttavia, sono punibili dall’ipocrisia e bigottismo ma sono pianti nella loro morte, esattamente come accade agli adulti: negati dalla vita, amati dalla morte. 
L’operazione del regista, infatti, fu proprio il superamento del pensiero del tempo, il superamento degli stereotipi sul possibile assassino ed anche del superamento anticlericale, oltre che di ceto sociale. 
Imputabili di reato di omicidio sono vari personaggi: il guardone Barra, ben presto scagionato; lo zio Francesco (George Wilson); la “maciara" che si autodichiara colpevole della morte dei primi due bambini attraverso la magia nera e la bionda e ricca Patrizia, una ragazza confinata nel luogo per scappare alle tentazioni della droga, da cui non uscirà e che a causa di quella ne era indagata.
Il personaggio di Patrizia, interpretata da Barbara Bouchet, fu molto discusso e fu oggetto di controversie e denunce. 



La scena in cui la  Bouchet si presenta nuda e ammiccante davanti a uno dei ragazzini, fu considerata di una morbosità e scandalo unici per quel tempo. Proprio a causa di ciò, Fulci fu incriminato ma ben presto scagionato, in quanto non vi fu nessuna scena di nudo davanti al piccolo attore. Fu utilizzato, per i controcampi, Domenico Semeraro, affetto da nanismo. 
Curioso notare che il cognome Semeraro era anche quello reale della nonna di tre dei bambini uccisi realmente nella strage di Bitonto, indagata ma poi scagionata.
Se i bambini non sono più bambini e se nessuno degli indiziati si rivelava vero colpevole, allora chi poteva esserlo davvero? 
Se i bambini non sono più bambini, gli adulti prendono il loro posto. Le reazioni degli adulti sono talmente senza nervo e assenti nella difesa. Persino le forze dell’ordine non hanno potere.  Persino la magia nera non ha più potere. Tutta l’autorità e le superstizioni delle cariche visibili e invisibili non hanno più valore. 
Nessun adulto, tranne il giornalista di cronaca nera, interpretato dal compianto Tomas Milian, è in grado di difendersi: gli adulti sono indifesi ma il giornalista no. 
Il giornalista è una figura risoluta e a tratti sfrontata, che diventerà eroe, trasformandosi esso stesso in assassino del vero colpevole. Tutto questo a causa della testa di un paperino di plastica, che non era altri che una metafora oggetto per indicare il bambino, o meglio, i bambini uccisi e che diede pure non pochi problemi a Fulci. Infatti, il film, doveva intitolarsi “Non si sevizia Paperino”. La Disney ebbe a ridire sul titolo ma con uno stratagemma grafico mascherarono un poco quel “un”, trovando così una soluzione per far rimanere in qualche modo il titolo originale. Manca citare la figura fondamentale: il prete Don Alberto. La parte fu affidata a Marc Porel, a cui interpretazione fu giudicata una delle migliori della sua carriera. Don Alberto era figlio di Aurelia (Irene Papas) e fratello della piccola Malvina. 


Don Alberto (Marc Porel)


Quel prete onnisciente nei confronti degli cittadini, giovane e dal bell’aspetto, che si lascia smascherare nelle sue debolezze cedendo alla sigaretta offertagli da giornalista. Chi trasgredisce una regola, potrebbe commettere qualsiasi altro peccato. Tale affermazione si, forse, si veste meglio da domanda... 
Fulci avverte lo spettatore già con quel piccolo particolare che, infatti, si rivelerà nel mostrare la colpevolezza del prete. Lui era l’assassino dei bambini; lui che non trasgredisce mai nei confronti del sesso o delle donne da guardare, ma uccide per riportare tutto a un certo candore e "ordine". 
Con la scena finale del combattimento tra Milian e Porel, il regista mostra la trasformazione del volto del prete, che precipita dal burrone, in caduta libera: un Lucifero dalle sembianze disumane a testa in giù, in picchiata, nel vuoto, ove la macchina da presa esalta non più il volto angelico del prete ma un orribile pupazzo deformato, trasformato, ribaltato, esattamente come si trasforma il volto durante un esorcismo, mettendone in luce la mostruosità, grazie agli effetti speciali del maestro Carlo Rambaldi.
Per quel prete tormentato la morte era esorcismo dal dolore. 
Fulci veste il finale di anticlericalismo e si incarna nello spirito. A quel tempo, occorreva mostrare l’umanità anche nelle divise. 
Il rispetto per una tonaca veniva scalfita e interrotta dal regista che, in quel momento, si sostituiva all’entità giudicante: a Dio. 
Consumati i drammi, il dolore, le giustizie private e la morte, Fulci fa accettare al pubblico il gesto di difesa del giornalista portato a uccidere per salvarsi e per salvare la piccola sorellina del prete Malvina, rea, a suo modo, di aver staccato la testa a quel paperino durante l’assassinio di un bambino; lei, che sarebbe dovuta morire di lì a poco, per opera di suo fratello. 
L’etimologia del nome Malvina, che spesso troviamo in letteratura, assume diversi significati. In questo caso, è suggestivo e curioso pensare derivi dal tedesco “mal-win”, letteralmente “amica della giustizia” ed il ruolo della piccola è stato quello di fare giustizia, smascherando il colpevole dei tragici fatti. Il colpevole principale è uno ma gli assassini, in realtà, molti di più. Non dimentichiamo la terribile scena del massacro della "magiara" Bolkan, nel cimitero, da parte di alcuni uomini che con una violenza inaudita pensavano di fare giustizia. Ognuno vittima e carnefice allo stesso tempo.

Il finale riprende le dolci e verdi colline dell’inizio, non più solo cornice di un paese povero e rurale, ma cornice delle perversioni umane. 
Fulci si ispirò alla triste storia della strage di quei poveri bambini e l’ha raccontata -a modo suo- lasciando allo spettatore un amaro dubbio sulla realtà di tanti altri crimini commessi e sulla natura di quella giustizia, ove il confine tra vittima e carnefice, colpevole e innocente, divengono un vero e proprio rompicapo e riflessione profonda.

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