mercoledì 27 dicembre 2017

Quel fischio dei Coppola che partì da Bernalda



A tu per tu con Michele Salfi Russo, cugino di Francis Ford Coppola e regista del premiato docufilm “ The Family Whistle”, racconta le origini della famiglia Coppola.


Conosciamo meglio Michele Salfi Russo, autore e regista del docufilm “The Family Whistle”. Quando si è acceso il “sacro fuoco dell’arte”? Raccontaci le tue origini e i tuoi percorsi…
L’arte fa parte di me da sempre. É una condizione naturale non solo mia ma di tutta la mia famiglia: la creatività, la curiosità, la voglia di leggere fra le righe quello che mi si presenta davanti, fanno da sempre parte di me. Il mio percorso artistico nasce e si sviluppa in un habitat naturale, che è quello di casa mia. Mio padre è stato un grande storyteller, sia come maestro elementare, sia nella sua vita privata. Ho preso da lui questa capacità di raccontare storie. Mia madre, invece, è colei che ci ha sempre spronato a inseguire i nostri sogni. La fortuna di avere avuto genitori così viene completata con la figura dei miei fratelli: Gaetano, un talento straordinario, un artista versatile;  Riccardo, un bravissimo musicista; mia sorella Lella, brava scultrice e arredatrice, sposata con un musicista, a Londra. Come ti dicevo, una famiglia di artisti… 


Come dicevi, la tua è una famiglia di artisti. Questo lo spieghi bene nel tuo documentario “The Family Whistle”, in cui racconti la storia della famiglia Coppola e di come tu sia riuscito a ricostruire l’albero genealogico a partire dal 1775, ricongiungenti con loro. Sei cugino di Francis Ford Coppola. Come ci si sente ad essere cugino di uno dei più grandi registi della storia del cinema? Ci racconti esperienze, sensazioni ed emozioni provate, stando al suo fianco?
La mia nonna paterna era cugina di primo grado con Agostino Coppola, il nonno di Francis. Scopro proprio partendo dal cinema, come luogo, di essere suo parente e nel docufilm racconto tutto questo. Era difficile ricucire la tela della famiglia Coppola, ma in 25 anni di ricerche, sono riuscito a completare l’albero genealogico di tutta la famiglia e in otto anni a realizzare il docufilm. Un giorno, rimettendo a posto vecchie lettere, trovai quella di Carmine Coppola e chiesi a mio padre spiegazioni su questa nostra parentela con loro. Da lì cominciai il mio grande percorso di ricerca, nonostante le difficoltà a ricostruire tutto quel tempo perduto. Quando iniziai le ricerche, negli anni 80, non c’era internet, non c’era modo immediato per contattare le persone. Fu per caso, ascoltando una conversazione tra il mio regista e un suo amico, che riuscii ad avere finalmente modo di contattare Francis. Scrissi a Francis il primo Aprile del 1988. Lui mi rispose a Giugno, scrivendomi che mi avrebbe raggiunto a Cinecittà, l’autunno seguente. Finalmente ci incontrammo e fu un incontro molto emozionante. Conobbi suo padre, sua madre, suo fratello Agostino, il papà di Nicholas Cage. Gli dissi: “Francis è ora che tu torni a Bernalda”. Nella Primavera dell’ 89, venne a Bernalda, gli diedero la cittadinanza honoris causa e, in tutto questo percorso di ricongiungimento con luoghi e persone, non feci altri che alimentare la sua curiosità, che rimane ancora oggi viva, dopo venticinque anni dalla nostra reunion. Rcominciò a frequentare Bernalda e comprò questo palazzo ottocentesco, Palazzo Margherita, facendone un resort, dove anni dopo si sarebbe sposata sua figlia, la regista Sofia Coppola. Grazie alla realizzazione del documentario siamo riusciti a conservare la memoria storica, che tutti dovremmo tenere ben stretta, indipendentemente dal pregio, dalla celebrità della famiglia a cui apparteniamo. Ho semplicemente raccontato la storia di una famiglia di origini italiane con l’arte nel sangue, che è riuscita ad esportarla in tutto il mondo.


L’idea di realizzare un docufilm del genere, da dove nasce? C’è stato un evento scatenante?
Per scrivere un film occorre ci sia una “spina dorsale” e l’idea nasce davanti a un bicchiere di vino, mentre raccontavo a Francis le storie di nonno Agostino. Lui mi disse: “ Sei tu che dovresti fare il film perché sei tu che conosci bene la storia, hai talento e mi piace come la racconti” . Così cominciai a girare. In occasione del matrimonio di Sofia, proiettai per la prima volta il premontato del documentario. Vidi Francis commosso e mi disse: “ Michele, possiamo mostrarlo al mondo” e così abbiamo fatto. La sua approvazione mi ha ripagato di tutto. Tutto questo è un sogno che è diventato realtà, come mamma mi ha insegnato. Agostino, diceva: “Fate la vostra vita ma non perdete mai la musica”; mia mamma diceva: “Fate la vostra vita ma non smettete mai di sognare”.

Vedendo il documentario si capisce il legame profondo che hai con Bernalda. Cosa rappresenta per te?
A Bernalda c’è una grande possibilità di respirare il tempo. C’è la possibilità di non avere fretta, di avere il tempo di osservare le cose, di contemplarle e di viverle. Credo Bernalda sia stata una grande opportunità per sviluppare la nostra creatività in famiglia.



Hai dimostrato un esordio notevole con questo docufilm, ricevendo, nel 2016, il primo premio come miglior fotografia al Boston International Festival. Hai lavorato a fianco di Francis ne Il Padrino - parte III e con Giuseppe Tornatore in Bàària. Che cosa ti hanno insegnato due registi di quel calibro?
Sono due registi enormi e da loro si impara davvero molto. Lavorare al loro fianco è stata un’ esperienza memorabile. Sono registi dotati di grande professionalità e umanità, che amano gli attori con cui lavorano, che costruiscono insieme all’attore il film e i personaggi. Non sempre si ha la fortuna di lavorare con registi del genere…

Quali sono i tuoi registi di riferimento e a quale tipo di cinema senti appartenere di più?

Ci sono grandi registi ovunque, ognuno nel proprio genere. Se dovessi scegliere direi Frank Capra, che ha saputo raccontare magistralmente il sogno americano e il sogno in genere; poi Kurosawa, Kubrick e tanti altri. Sono molto legato al neorealismo, quella verità assoluta, quelle immagini forti erano sensibilmente appetibili e mi emozionano sempre. Mi piace leggere tanto e di tutto, ascoltare tanto e tutto. Attingo da tutto. Ogni linguaggio è diverso e interessante. 




Intorno a te hanno gravitato artisti di un certo livello per creare il docufilm, come ad esempio tuo fratello Gaetano Russo, uno tra gli scenografi italiani più bravi. Chi è per te Gaetano, oltre ad essere tuo fratello, e che ruolo ha avuto nella creazione del film?
Gaetano è la luce, un vero artista. Riesce a dare pennellate di colore anche sulla mia tavolozza, se sto scrivendo o girando un film. Ha sempre intuizioni geniali e riesce a dare un senso a tutto, ad animarlo. Ci siamo sempre aiutati l’un l’altro. Gaetano è una grande opportunità, oltre che un grande fratello. Al docufilm, invero, ha contribuito tutta la famiglia: da Gaetano nell’estetica, nella grafica, scenografia ed ambientazione, a Riccardo per le musiche sino a tutti i consigli ricevuti dagli altri membri. L’idea grafica è di Gaetano: l’albero genealogico che da cinque generazioni diventa pentagramma esprime esattamente ciò che lega la nostra famiglia : la musica


Hai altri progetti? E se sì, ci puoi svelare qualcosa in anteprima?
Ho finito di scrivere una sceneggiatura che vorrei girare in Basilicata, fra i sassi di Matera, tratta da una storia realmente accaduta un secolo fa e che si muove attorno ad un personaggio cardine di questa storia che, guarda caso, è un sognatore. É un personaggio che pensava, attraverso l’arte, di risollevare la condizione miserevole in cui versava la Lucania in quel tempo. I lucani sono sognatori per antonomasia. 

Un ultima domanda, la più significativa: cosa rappresenta  per te il fischio? Ti capita di usarlo realmente?

Sì, conservo il mio fischio, un po’ per gioco, un po’ per istinto. Lo uso con mio figlio come faceva papà con noi per richiamarci se era pronto il pranzo, se eravamo al mare o per strada giocare. Il fischio è musica, è un suono fatto da poche note, che distingue una famiglia dall’altra; che distingue una cultura, una forma mentis, se così si può dire, da una famiglia all’altra. É senso di appartenenza del nucleo familiare e della comunità. Dentro al fischio ci sono tutte le sfumature di paura, consigli, raccomandazioni, spensieratezza, gioia. É un mezzo vero e proprio di comunicazione che sostituisce le parole. In quelle tre note senti tutto. É musica e, d’altronde, nella nostra famiglia, non poteva essere mezzo migliore.

domenica 10 dicembre 2017

Non si sevizia (un) Paperino: quando Fulci raccontò la strage di Bitonto


Tra il 1971 e 1972, a Bitonto, cinque bambini  furono trovati in un pozzo, senza vita. Ancora nessun colpevole per la tragedia, da allora. 
Sono passati quarantacinque anni e, come tutti i delitti irrisolti, vengono lasciati marcire nelle carte e nella memoria occultata da altri eventi, soprattutto quando si parla di un luogo ove la povertà faceva da padrona, rendendo quasi naturale e legittima l’uccisione di esseri umani. 
Tuttavia, il genio di Lucio Fulci, prolifico regista romano, capace di  “terrorizzare” pubblico quanto tutti i generi di cinema da lui toccati, con il suo stile crudo e schietto prese ispirazione da quel fatto terribile e realizzò il capolavoro “Non si sevizia un Paperino”. 


Il film fu, ed è tuttora, decretato come la summa stilistica di Fulci, ritenuto fondamentale per il giallo italiano, ove convivevano, con sapienza - nell'habitat horror- neorealismo, commedia, thriller e spy story,  Il regista riuscì a smascherare - o forse meglio a creare - quell’assassino mai trovato, con una chiave apparentemente anticlericale e immorale e apparentemente facile. Le ambientazioni furono adattate in un contesto rurale e povero dell’estremo sud lucano e tale scelta, costituiva una novità nel panorama del giallo cinematografico di quel tempo.


L'opera inizia con la ripresa del paesaggio di Accendura, luogo dal nome fittizio, adattato dal nome di Accettura, un paesino in provincia di Matera. Fulci, tuttavia, girò poche scene in Basilicata e molti esterni furono girati in Puglia e a Pietrasecca, in provincia dell'Aquila, nonostante l’anima verace e grezza di personaggi e ambienti, rispecchiassero in toto quella lucana.
Il paesaggio di verdi colline interrotte dal ponte di cemento  sembra squarciare la morbidezza e l’innocenza della natura. Tale contrasto di elementi fu coadiuvato dal compositore Riz Ortolani, le cui colonne sonore univano dolcezza della melodia alla crudeltà delle immagini.
L’inizio del film mostra il disseppellimento dello scheletro di un neonato da parte della “maciara” di Accendura, interpretata da una straordinaria Florinda Bolkan, già nota per la sua parte precedente nel giallo cult  “Una lucertola con la pelle di donna”, del 1977. 




Nella scena successiva compaiono dei bambini, in chiesa, intenti a pregare. Per quei bambini, la preghiera è una “veste” che maschera gli impulsi ormonali di adolescenti in erba. Sono attratti dalle donne, dalle prostitute, dal sesso, dalle riviste pornografiche. Non a caso questo film fu ampiamente criticato e ritenuto vergognoso. 
Un’opera dissacrante, cruda, dove non si risparmiava nessuna pietà sulla ingenua figura del bambino, ora intento a pregare, ora intento a giocare al pallone, ora intento a essere curioso sul sesso. 
I bambini non erano più bambini e questo, Fulci, teneva a chiarirlo : dalle forti Gauloises fumate dai minori, alle pulsioni di spiare il sesso fra adulti, sino alla più particolare ripresa delle fattezze di un bambino che, avviandosi verso l’uscita dalla chiesa, non è più bambino, ma adulto. 
Si rovescia ogni stereotipo, pur mantenendo il sacrifico dei bambini della storia originale: i bambini non più bambini e, gli adulti, visti come orpelli piagnucolanti e subdoli. 
I bambini, tuttavia, sono punibili dall’ipocrisia e bigottismo ma sono pianti nella loro morte, esattamente come accade agli adulti: negati dalla vita, amati dalla morte. 
L’operazione del regista, infatti, fu proprio il superamento del pensiero del tempo, il superamento degli stereotipi sul possibile assassino ed anche del superamento anticlericale, oltre che di ceto sociale. 
Imputabili di reato di omicidio sono vari personaggi: il guardone Barra, ben presto scagionato; lo zio Francesco (George Wilson); la “maciara" che si autodichiara colpevole della morte dei primi due bambini attraverso la magia nera e la bionda e ricca Patrizia, una ragazza confinata nel luogo per scappare alle tentazioni della droga, da cui non uscirà e che a causa di quella ne era indagata.
Il personaggio di Patrizia, interpretata da Barbara Bouchet, fu molto discusso e fu oggetto di controversie e denunce. 



La scena in cui la  Bouchet si presenta nuda e ammiccante davanti a uno dei ragazzini, fu considerata di una morbosità e scandalo unici per quel tempo. Proprio a causa di ciò, Fulci fu incriminato ma ben presto scagionato, in quanto non vi fu nessuna scena di nudo davanti al piccolo attore. Fu utilizzato, per i controcampi, Domenico Semeraro, affetto da nanismo. 
Curioso notare che il cognome Semeraro era anche quello reale della nonna di tre dei bambini uccisi realmente nella strage di Bitonto, indagata ma poi scagionata.
Se i bambini non sono più bambini e se nessuno degli indiziati si rivelava vero colpevole, allora chi poteva esserlo davvero? 
Se i bambini non sono più bambini, gli adulti prendono il loro posto. Le reazioni degli adulti sono talmente senza nervo e assenti nella difesa. Persino le forze dell’ordine non hanno potere.  Persino la magia nera non ha più potere. Tutta l’autorità e le superstizioni delle cariche visibili e invisibili non hanno più valore. 
Nessun adulto, tranne il giornalista di cronaca nera, interpretato dal compianto Tomas Milian, è in grado di difendersi: gli adulti sono indifesi ma il giornalista no. 
Il giornalista è una figura risoluta e a tratti sfrontata, che diventerà eroe, trasformandosi esso stesso in assassino del vero colpevole. Tutto questo a causa della testa di un paperino di plastica, che non era altri che una metafora oggetto per indicare il bambino, o meglio, i bambini uccisi e che diede pure non pochi problemi a Fulci. Infatti, il film, doveva intitolarsi “Non si sevizia Paperino”. La Disney ebbe a ridire sul titolo ma con uno stratagemma grafico mascherarono un poco quel “un”, trovando così una soluzione per far rimanere in qualche modo il titolo originale. Manca citare la figura fondamentale: il prete Don Alberto. La parte fu affidata a Marc Porel, a cui interpretazione fu giudicata una delle migliori della sua carriera. Don Alberto era figlio di Aurelia (Irene Papas) e fratello della piccola Malvina. 


Don Alberto (Marc Porel)


Quel prete onnisciente nei confronti degli cittadini, giovane e dal bell’aspetto, che si lascia smascherare nelle sue debolezze cedendo alla sigaretta offertagli da giornalista. Chi trasgredisce una regola, potrebbe commettere qualsiasi altro peccato. Tale affermazione si, forse, si veste meglio da domanda... 
Fulci avverte lo spettatore già con quel piccolo particolare che, infatti, si rivelerà nel mostrare la colpevolezza del prete. Lui era l’assassino dei bambini; lui che non trasgredisce mai nei confronti del sesso o delle donne da guardare, ma uccide per riportare tutto a un certo candore e "ordine". 
Con la scena finale del combattimento tra Milian e Porel, il regista mostra la trasformazione del volto del prete, che precipita dal burrone, in caduta libera: un Lucifero dalle sembianze disumane a testa in giù, in picchiata, nel vuoto, ove la macchina da presa esalta non più il volto angelico del prete ma un orribile pupazzo deformato, trasformato, ribaltato, esattamente come si trasforma il volto durante un esorcismo, mettendone in luce la mostruosità, grazie agli effetti speciali del maestro Carlo Rambaldi.
Per quel prete tormentato la morte era esorcismo dal dolore. 
Fulci veste il finale di anticlericalismo e si incarna nello spirito. A quel tempo, occorreva mostrare l’umanità anche nelle divise. 
Il rispetto per una tonaca veniva scalfita e interrotta dal regista che, in quel momento, si sostituiva all’entità giudicante: a Dio. 
Consumati i drammi, il dolore, le giustizie private e la morte, Fulci fa accettare al pubblico il gesto di difesa del giornalista portato a uccidere per salvarsi e per salvare la piccola sorellina del prete Malvina, rea, a suo modo, di aver staccato la testa a quel paperino durante l’assassinio di un bambino; lei, che sarebbe dovuta morire di lì a poco, per opera di suo fratello. 
L’etimologia del nome Malvina, che spesso troviamo in letteratura, assume diversi significati. In questo caso, è suggestivo e curioso pensare derivi dal tedesco “mal-win”, letteralmente “amica della giustizia” ed il ruolo della piccola è stato quello di fare giustizia, smascherando il colpevole dei tragici fatti. Il colpevole principale è uno ma gli assassini, in realtà, molti di più. Non dimentichiamo la terribile scena del massacro della "magiara" Bolkan, nel cimitero, da parte di alcuni uomini che con una violenza inaudita pensavano di fare giustizia. Ognuno vittima e carnefice allo stesso tempo.

Il finale riprende le dolci e verdi colline dell’inizio, non più solo cornice di un paese povero e rurale, ma cornice delle perversioni umane. 
Fulci si ispirò alla triste storia della strage di quei poveri bambini e l’ha raccontata -a modo suo- lasciando allo spettatore un amaro dubbio sulla realtà di tanti altri crimini commessi e sulla natura di quella giustizia, ove il confine tra vittima e carnefice, colpevole e innocente, divengono un vero e proprio rompicapo e riflessione profonda.

Zinaida Nikolaevna Giuppius e il femminismo in via di trasformazione (o estinzione)

Girando per i tiepidi vicoli di Roma, mi decido a entrare in una di quelle piccole librerie in via di estinzione che ancora resistono. Lì, ...