sabato 1 settembre 2018

Zinaida Nikolaevna Giuppius e il femminismo in via di trasformazione (o estinzione)

Girando per i tiepidi vicoli di Roma, mi decido a entrare in una di quelle piccole librerie in via di estinzione che ancora resistono. Lì, sulla soglia, ho incontrato Zinaida Nikolaevna Giuppius. Sembra il nome di una strega e, in effetti, strega lo è. O meglio, lo fu. Nacque a Belëv, nel 1869. Capace di trasformarsi dinanzi a me da ‘Madonna decadente’ a ‘Diavolo’; da ribelle ad ammiccante intrattenitrice di un tempo, da passato a presente: da donna a uomo e… viceversa. Zinaida mi spiega ciò di cui sono sempre stata alla ricerca: il tema dell’androginia, della philosophia perennis, il rapporto donna-uomo fra parti esterne, il ruolo della donna e dell’uomo nelle loro parti più intime, interne ed eterne; l’alchimia che in ognuno di noi presenzia. Siamo esseri umani, prima di donne e uomini. Siamo esseri completi ma le norme sociali ci insegnano ad essere una cosa o l’altra, in base all’atteggiamento e in basi a questioni meramente anatomiche. Così comincia a raccontarmi della sua vita, delle sue opere letterarie e teatrali, delle sue gesta anticonvenzionali e irriverenti, anche e soprattutto dal punto di vista politico, in quella Russia bolscevica e autocratica che faticava ad accettare qualcosa di alieno e innovatore. Destrutturare l’apparente semplicità della vita, scorporandola in qualcosa di più alto e complesso, per approdare all’unicità infinita ed eterna dell’esistenza. Questo era il messaggio, chiaro.

Il rapporto maschile /femminile, uomo/donna vengono affrontati dalla Gippius non come divisione, ma come unione dei due poli, ponendo dapprima in chiave mistica una visione antitetica allo stagnante realismo materialista. La sua conflittualità e la sua lotta interiore verso la “perfezione” dell’essere e verso "l’impossibile", pone la scrittrice non solo come poetessa simbolista ma come una delle filosofe più illuminate e uniche per quel tempo. 

Ed ecco apparire tra le mie mani un libro sottile: “L’Eterno Femminino”. Racchiude tre suoi racconti, che in quella libreria ho potuto trovare nella vecchia edizione tascabile della Biblioteca del Vascello: "Gli Innamorati", "La Bestia" e "L’Eterno Femminino" (racconto con titolo omonimo della raccolta). 
“Eterno Femminino” fu espressione coniata dal Goethe, nel Faust. Questo “femminino" non si riferisce puramente alla donna ma simboleggia il femminile come "accompagnatore delle anime dei defunti e veicolo, memoria eterna nel tempo : madre e morte." Una pura palingenesi. Il femminino è traghettarore e, con l’eterno maschile, se uniti, “portano in alto” verso “l’essere umano”. Tale tematica, Gippius la sviluppa per tutta la sua carriera letteraria.

"Gli Innamorati" è un racconto  sul matrimonio e sui risultati infelici che la coercizione del sacramento imponeva al tempo. 
"La Bestia” narra la storia di una donna addestrata per essere una perfetta intrattenitrice e donatrice di amore. Il suo aristocratico atteggiamento la condurrà a scontrarsi con la più ruvida e cruda realtà dell’Uomo, innamorato di lei, ma respinto dalla sua sincerità. La chiamerà Bestia, perché le bestie non bevono, mentre l’uomo, con le sue debolezze e le sue necessità, deve sacrificarsi e dunque, per disperazione, ubriacarsi e uccidere la bestia dentro di lui: l’amore, la donna. La Bestia, inoltre, non è altro che il grande senso di colpa caratteristico della Russia, con una certo eco dovstoeskjiana da cui la Gippius ne fu influenzata.
"L’Eterno Femminino", ultimo racconto, narra dell’apertura mentale dell’uomo nei confronti della donna che lo abbandona e il finale soprendente del racconto, spiega esattamente il conflitto-unione uomo/donna, maschile/femminile. Inoltre, “madre Russia", presenzia sempre. Anche laddove non si vede chiaramente, allude all’Unione, all’Amore, alla spiritualità, esattamente quanto alla politica e alla religione. 

Zinaida Gippius


L’Amore ha pervaso tutta la carriera mistico-artistica-sentimentale della Gippius. Anche quando il rapporto con il marito, il celebre simbolista russo Dmitrij Merežkovskij, divenne a tre con il giovane critico omosessuale Dmitrij Filosofov. L’amore era Uno, ed era libero quanto conflittuale (ripudiandone tuttavia l’omosessualità, quanto la procreazione) ed era una continua ricerca della spiritualità nel suo totale anticlericalismo e anticonvenzione. 
Profondità di pensiero, maestria formale, un’accentuata spavalderia e blasfemia ( “Ma come Dio/io amo me stesso”) le sono universalmente riconosciute. Come pure le è riconosciuto il fatto di avere formato, a livello di ritmo e metrica, tutto il simbolismo a venire. Zinaida era Antonio Krajnij, quando si calava nei panni del critico. Non solo fu poetessa ma critico letterario, autrice di teatro, di sei libri di racconti, di romanzi, delle sue memorie pietroburghesi. Combattente nei confronti dell’autocrazia prima e del bolscevismo poi, nel 1919 fuggì in Polonia per poi raggiungere dopo poco Parigi, dove morì nel 1945, in totale abbandono e povertà. Venne anche in Italia, dove soggiornò a Roma, Firenze, Forlì e Venezia con il marito. L’Italia si rivelerà importante per Merežkovskij, il quale si occupò a lungo della figura di Leonardo da Vinci per la realizzazione dell’opera “La Rinascita degli Déi : Leonardo Da Vinci.” Dall’Europa, la Gippius affronterà anche il tema dell’emigrazione.
Portatrice di una nuova religiosità e di una nuova sessualità, in lei il confine femminile e maschile si (con)fondono, creando una figura androgina, che la condurranno per tutta la vita a fuggire dalle convenzioni e da una imposta concezione di femminilità. 
Zinaida è unione di aspetti e prospettive di vita che tutt’oggi ci appartengono e dalle quali solo apparentemente sono tollerate ma non sono veramente accettate e capite. Se l’uomo e la donna fossero Uno, saprebbero comprendersi e sublimare l’Amore, come l’Arte, non nella possessione di un oggetto; non concepirebbero nemmeno il tradimento, ma nell’altruismo e nell’elevazione di essi a sentimenti che oggi come oggi ci appaiono possibili solo in altri mondi. 
“A me è necessario quello che non c’è al mondo”, dice Zinaida. Conscia del momento divisorio tra donne e uomini, in questa contemporaneità pseudo-moderna, ove questo aspetto di unione è stato superato dalla comparsa tecnologica, aggiunge: “Se le donne dedicassero la cura e le forze consacrate alla libertà “femminile” alla liberazione di tutta l’umanità, in questa lotta conquisterebbero anche la propria e non la riceverebbero dagli uomini, ma la otterrebbero al loro fianco”. Zinaida sa e vede tutto, anche i nuovi robot che soppianteranno l’umano e che già lo stanno facendo. Forse anche oggi le sarebbe necessario ciò che non esiste al mondo, come è stato necessario a me vivere brevemente ma intesamente il (suo) passato, come un futuro da seminare nuovamente, in chiave diversa e contemporanea ma pur sempre essenziale per non salutare per sempre l’umanità, in cui credo ancora. 
E scompare, in una nuvola di tabacco profumato.


articolo pubblicato su "Il Roma"

Quel Visconti che ha fatto grande la Basilicata


Retrospettiva su “Rocco e i suoi fratelli”, film del celeberrimo e indimenticabile regista Luchino Visconti. Paride Leporace racconta dettagli e curiosità sul film e sulla sua realizzazione.


“Rocco e i suoi fratelli”, rappresenta una pietra miliare del cinema italiano; una meta difficilmente raggiungibile e replicabile, come tutti quei film di Visconti riassunti e definiti nel suo ”cinema antropomorfico”, decretando il regista come uno tra i più illuminati della storia del cinema. 

Parliamo di quel cinema italiano, immortale, che grande ha fatto l’Italia e che ha descritto ed esportato le nostre peculiarità, usi e costumi in giro per il mondo. 
“Rocco e i suoi fratelli” non è (solo) un film; occorre adottare la parola “cinema” quando ci riferiamo a un’opera come questa. 
La fatica nell’assorbire un film del genere è notevole, quando si ha una certa sensibilità verso temi che Visconti seppe dipingere magistralmente nel periodo del boom economico italiano, come il tema della borghesia e della modernità, nei loro aspetti più oscuri e fragili ed il rapporto fra bene e male.
Con il boom economico, i nostalgici frammenti di guerra e resistenza venivano spazzati via da una ricostruzione economica che, ben presto, sarebbe divenuta nuova guerra sociale e dramma.
Così, questa pellicola di Visconti divenne - ed è tutt’ora- non solo manifesto dell’immigrazione meridionale al nord; non solo il ritratto fedele della Basilicata ma uno strumento potentissimo che ancora scuote gli animi: la descrizione della borghesia con le sue fragilità e debolezze, i suoi inganni e quella verità che è ancora tanto scomoda da digerire. 
Se è vero che dagli anni ’60 la società è cambiata notevolmente, così come la Milano di Visconti, fatta di fabbriche e fumo ma culla di una vena intellettuale ben più progredita di quella di oggi, è vero pure che guardando e riguardando “Rocco e i suoi fratelli”, ci accorgiamo di come venga descritta fedelmente la realtà anche odierna, con i suoi chiaro-scuri, bianco e nero, luce e buio tipici della società, della vita e dell’uomo in costante progresso e successo. 
Ma il progresso, come il successo, hanno un prezzo. Tale questione Visconti ben la definisce attraverso Rocco Parondi, come pure attraverso i suoi quattro fratelli. Quei cinque fratelli che la loro madre definisce come le “cinque dita della mano”; quella madre e donna tipica del meridione di un tempo, ispirata non solo dalle donne del sud ma anche dalle fattucchiere lucane e che, come le “madri” presenti nei film di Visconti, seguirà l’archetipo della madre protettiva che al contempo pare quasi vendere/sacrificare i suoi figli per raggiungere lo scopo economico/sociale, in totale ingenuità.
Così si comporta la meravigliosa attrice greca Katina Paxinou nei panni di Rosaria Parondi: indossa il lutto del marito, portando una spilla con il volto del coniuge, per poi, col crescere dei film e dei figli che raggiungeranno un grado sociale più elevato, sbarazzarsene. Lei, chiamata dai milanesi “ signora” grazie alle fatiche e al successo dei figli, sembra quasi non avere più bisogno della presenza del marito, neanche sotto forma di spilla, essendo riuscita a fare la “scalata sociale”. Superficialmente, il togliersi la spilla, risulta la fine del lutto ma quella sorta di protezione dall’alto indossata fino a un certo punto, (si noti che porta la spilla fino a che non cambiano casa) veniva sostituita dalla scalata sociale, dai soldi, dall’essere benestanti e dall’arrivare ‘nell’alto del paradiso borghese’, tutto grazie al sacrificio dei figli: anche la tristezza veniva spazzata via e si perdonava tutto, persino la delinquenza del figlio Simone.

Alain Delon nei panni di Rocco Parondi


Visconti, con tutta onestà e smacchiando la sua posizione da ogni sorta di ipocrisia, disse già all’epoca che non v’erano registi originali, non v’erano registi che rappresentassero il realismo che intendeva. Era necessario che “gli uomini fossero dentro le cose e non le cose per se stesse”, questo per evitare l’effetto “ replica” e l’effetto bozzettista.
La ricetta viscontiana, oltre a questo principio fondamentale che presumeva studi antropologici specifici, prevedeva ingredienti necessari e unici alla realizzazione di questo film, così complicata a causa della censura per le scene forti di violenza. 
Tra i primi ingredienti, gli attori: un giovane Alain Delon al suo esemplare debutto nella veste del protagonista Rocco Parondi; un più noto Renato Salvatori, conosciuto già per il film “Poveri ma Belli”, qui calato nella parte drammatica del fratello Simone, riuscendovi alla perfezione; una acerba Claudia Cardinale, già brillante; la meravigliosa Anne Girardot, nei panni della femme fatale Nadia, tanto forte quanto fragile e sfortunata; la già citata attrice greca strepitosa, Katina Paxinou; i grandi Paolo Stoppa nei panni dell’allenatore Cerri e Roger Hanin in quelli dell’ex pugile Duillio Morini e tanti altri attori che hanno contribuito alla realizzazione di questo prezioso spaccato di Italia in pellicola. 
E tra gli altri ingredienti, troviamo i viaggi di Visconti per descrivere la Basilicata e le ispirazioni che questa terra ha dato, non solo a Visconti, ma a tanti altri registi dopo di lui. 

Rocco Parondi, era lo “spirito” nobile, dolce e  passionale del sindaco di Tricarico e poeta lucano Rocco Scotellaro e la “carne” del pugile Rocco Mazzola. Lo spirito di Scotellaro espresso nell’anima poetica, nobile e dolce di Parondi e la “carne” espressa dalla fisicità di Mazzola, il quale compare anche come cameo nel film. Rocco Parondi, dunque, assume la veste di “santo”, sacrificato dalla scalata sociale e dunque dalla famiglia per una buona reputazione, la cui carne e spirito si fusero col sangue della sua amata, in momenti diversi, ma entrambi ad opera della violenza del fratello Simone.
Su certi aspetti più tecnici e precisi del film, mi sono confrontata con il critico cinematografico, scrittore, nonché direttore della lucana Film Commission, Paride Leporace, il quale mi ha concesso nuovamente una piacevole intervista:

Di "Rocco e i suoi fratelli" si è parlato tanto. Grazie al suo restauro e al reintegro delle scene violente che furono tagliate dalla censura, oggi si può godere appieno dell’opera che si avvicina di più al volere di Visconti. Viene ritenuto uno dei film fondamentali del regista, oltre che pietra miliare del cinema. Da critico, ti chiedo : perché occorre guardare questo film e quanta importanza ha?

“Rocco e i suoi fratelli è una pietra miliare del cinema per numerosi motivi. Rispetto alle questione che accennavi, sulla borghesia, noi abbiamo una riflessione di Visconti che poggia su una storiografia molto significativa che va a toccare la letteratura più colta, come i Malavoglia  di Verga, di cui abbiamo un approccio di neorealismo diretto e dialettico; Il Ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori: il racconto biblico di Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann; come pure l’eterna compenetrazione tra bene e male ne l’Idiota di Fëdor Dostoevskij e il romanzo Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi. E poi la questione del sud, dell’immigrazione e del boom economico. Visconti pone, per questioni indagate sul campo, un approccio con la Basilicata che egli sceglie come regione chiave per raccontare la storia di questo straordinario film. 
É, inoltre, la celebrazione del debutto di un giovanissimo Alain Delon, che si rivela per la prima volta come attore straordinario, senza dimenticare i collaboratori numerosi: da Peppino Rotunno alla fotografia, Pietro Tosi ai costumi, lo scenografo  Pasquale Festa Campanile, che è lucano, e darà un grande contributo al film.
All’epoca, siamo in presenza del flusso migratorio del sud verso il nord e notiamo anche la presenza della figura dell’operaio, molto cara al Visconti di quel tempo. Questo grande esodo biblico, viene racchiuso nella cornice di questo straordinario film e racconto, partendo dall’esperienza familiare con il ruolo della madre, molto ben delineato, ed anche con gli altri lucani che abitano nel palazzo. É interessante e curioso notare che la madre lucana è interpretata da una grande attrice greca , la Paxinou. E sempre un’altra brava attrice greca, Irene Papas,  interpreterà una donna lucana nel film Cristo si è fermato a Eboli, di Francesco Rosi. Sono donne e attrici forti, dai lineamenti dolci e pungenti, che lasciano il segno, come le donne lucane.
Ritengo, anche, che Rocco e i suoi fratelli abbia influenzato molto altri film a venire, come il Demonio di Brunello Rondi, Il Vangelo secondo Matteo di P.P. Pasolini e tutto il decennio di cinema italiano che scese in Basilicata ad ambientare i suoi film."

Luchino Visconti


 Scendiamo nei particolari del film: la sceneggiatura. L’intento di Visconti era quello di portare la Basilicata nel film e dato che non ci riuscì per motivi di lunghezza, ce l’ha fatta lo stesso e con una fedeltà e forza unica. Cosa puoi dirmi di quella parte tagliata?

“ Il film aveva un prologo scritto. C’era tutta una prima parte scritta in Basilicata e doveva iniziare lì, con la morte del padre e il funerale. Poi, chiusa questa prima parte c’era la parte dell’emigrazione. Siccome Visconti non tralasciava niente, tra il ’59 e ’60 fece una spedizione in Basilicata, documentata da fotografie fatte emergere dalla ricercatrice e  professoressa Teresa Megale, la quale ha ritrovato all’istituto grafici questo corpus che ricostruisce un po’ tutte le tappe. Assieme pure agli scatti del fotografo americano di scena, Paul Ronald, vi sono oltre 300 scatti effettuati tra Matera e Pisticci che documentavano questa base lucana del film. Il film fu molto condizionato dal clima culturale che viveva un intellettuale e un cineasta comunista come Visconti, poiché conosceva molto bene la vicenda del sindaco-poeta lucano Rocco Scotellaro. Questo pesa anche molto sulla attribuzione del nome del protagonista Rocco Parondi, anche se non è l’unica. Poi ci sono gli studi antropologici di Ernesto De Martino, che erano iniziati qualche anno prima e le ricognizioni fotografiche della Basilicata di grandi fotografi a partire da Henri Cartier-Bresson, che era stato proprio in quei luoghi. L’elenco è anche abbastanza lungo relativamente ai fotografi che visitarono la Basilicata. Il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, aveva dato una certa visione della civiltà contadina, che Visconti rielabora e riporta nelle vicende produttive. 
Il produttore Goffredo Lombardo, era molto preoccupato per questo film che si allungava, su cui lavorò per un po’ di tempo anche Vasco Pratolini, suo amico. Per questo motivo, chiamò Pasquale Testa Campanile, sia per la spedizione che per la riscrittura. Poi si decise di iniziare il film, anche per decisione di Visconti, tagliando questa parte lucana che non fu mai girata, ma trasportando perfettamente lo stesso la Basilicata in tutto il film. La ricostruzione degli ambienti poggerà su quelle fotografie fatte tra il 59 e 60, come gli usi, le abitudini, le contaminazione di lessico e canzoni lucane presenti nella colonna sonora e anche il richiamo della visione pugilistica strettamente connessi al pugile potentino Rocco Mazzola. Rocco Mazzola era realmente di Potenza e nell’elemento di racconto, quando il fratello di Rocco che è il primo pugile ad entrare in campo in questa sorta di trasformazione sociale  e combatte per una società milanese, si trova di fronte a una società di Potenza da cui l’incontro di boxe degenererà in una rissa con i lucani, i quali accusano i loro conterranei di tradimento. Ci sono elementi molto diffusi e significativi che interessano questo film relativamente alla Basilicata.
Ricordiamo una cosa fondamentale: Visconti era milanese, conosceva bene la sua città. Il suo studio per la realizzazione del film, è stato sull’inserimento delle realtà degli immigrati del sud al nord, sulle periferie. Lui portava dentro di sé le stigmate della cultura borghese in maniera profonda, mescolandola alla sua adesione al partito comunista. Era un personaggio decisamente interessante, oltre ad essere uno dei più grandi maestri del cinema."



Parliamo di Rocco e parliamo delle ispirazioni che Visconti trovò per la creazione di questo incredibile personaggio. Intanto cominciamo con l’etimologia del nome Rocco, che significa “roccia” e questo nome, se è vero nomen omen, si adatta davvero bene al suo personaggio. Ma sappiamo pure delle vere ispirazioni, relative a Rocco Scotellaro e Rocco Mazzola. C’è solo questo o c’è di più?

“Per costruire la figura di Rocco e per il suo nome, ci sono più cose a monte. Visconti, innanzitutto, durante il sopralluogo in Basilicata, si rende conto e  prende spunto dal culto di San Rocco, molto sentito in Basilicata e, infatti, il nome Rocco è il più diffuso in Basilicata. Non è una coincidenza che in una delle case ci sia la statua di San Rocco davanti alla quale la madre va a pregare. Poi v’è questa forte influenza della figura di  Rocco Scotellaro, uomo di cultura e politica. Non a caso c’è un brano di un dialogo in cui Rocco Parondi racconta quando al carcere portarono i contadini che fecero la rivolta: quello descrive l’episodio in cui Scotellaro fu arrestato e quindi è un riferimento diretto. Senza dubbio, già senza riferimenti diretti c’è un tributo a Scotellaro, dato che Visconti ne era molto rapito. E poi l’influenza del pugile Rocco Mazzola. Per fare questo Visconti e un suo amico frequentarono molto le palestre di Milano di quegli anni. L’ambiente del pugilato lo raccontavano, documentandosi bene. Era un ambiente di outsider e la vicenda di Rocco Mazzola era coeva di quegli anni, essendo campione. Unendo questi addendi, nasce la figura di Rocco Parondi. Ricordo inoltre che l’ambiente del pugilato, come quello dei calciatori, riuniva i ceti sociali più bassi che speravano nel successo e nella crescita economica, grazie a quegli sport."

Per approfondire la storia di Rocco Mazzola, rimando all’articolo minuzioso del giornalista Leonardo Pisani: 


Qual è stato il tuo personaggio preferito del film?

“Il personaggio che ho preferito è Rocco. Delon identifica in sé la Lucania in maniera perfetta. Tuttavia, il vero personaggio positivo è il fratello operaio, Ciro, che incarna la cultura operaia di chi non ha mai una deviazione e ha un vero e proprio inserimento nella vicenda. Però parteggio per Rocco. Sono molto affascinato dalla dolcezza di Rocco e dal suo saper scoprire i sentimenti verso la donna contesa e da come approda alla boxe, totalmente contraria al fratello Simone, anche se, in qualche modo, fa simpatia pure lui… le canaglie ci fanno sempre simpatia e ci attraggono.”


La maestria di Visconti, oltre a tutto quello che abbiamo appena descritto, è stata anche l'eliminazione dei confini. Quando Simone combatte contro la società di Potenza, non compie un tradimento bensì  una sostituzione necessaria per arrivare successo, eliminando così ogni campanilismo. E quando Rocco dovrà battersi all’estero, Visconti compie l’operazione importante e sottile di portare i lucani nel mondo, riproducendo così  la carriera del pugile Rocco Mazzola. Attraverso lo sport si eliminano i confini geografici e si compie la doppia esportazione/emigrazione della cultura lucana ovunque, nonostante come evidenzi Paride Leporace: “ Rocco non dimentica la sua terra e invita il fratello minore Luca a tornare nella sua terra, facendo la promessa di tornarci, un giorno”. L’operaio sarà la figura più positiva di tutto il film, quella che tiene le redini della situazione. Il personaggio di Ciro è rigoroso, silenzioso ma è il più insidioso, perché è il borghese che verrà descritto da Pasolini relativamente all’educazione dei figli degli “operai” e alla questione culturale in Italia. 
L’altra operazione curiosa e rivelatrice che compie Visconti, è di inquadrare il piccolo Luca, nel finale, come speranza e futuro. 

E quel Luca, nella realtà si chiama Rocco, proprio come il nome che ha fatto grande questo film e che ha permesso all’anima della Basilicata e alla sua parte più profonda e descrittiva di essere esportata in tutto il mondo, grazie a Luchino Visconti.

Zinaida Nikolaevna Giuppius e il femminismo in via di trasformazione (o estinzione)

Girando per i tiepidi vicoli di Roma, mi decido a entrare in una di quelle piccole librerie in via di estinzione che ancora resistono. Lì, ...