mercoledì 27 dicembre 2017

Quel fischio dei Coppola che partì da Bernalda



A tu per tu con Michele Salfi Russo, cugino di Francis Ford Coppola e regista del premiato docufilm “ The Family Whistle”, racconta le origini della famiglia Coppola.


Conosciamo meglio Michele Salfi Russo, autore e regista del docufilm “The Family Whistle”. Quando si è acceso il “sacro fuoco dell’arte”? Raccontaci le tue origini e i tuoi percorsi…
L’arte fa parte di me da sempre. É una condizione naturale non solo mia ma di tutta la mia famiglia: la creatività, la curiosità, la voglia di leggere fra le righe quello che mi si presenta davanti, fanno da sempre parte di me. Il mio percorso artistico nasce e si sviluppa in un habitat naturale, che è quello di casa mia. Mio padre è stato un grande storyteller, sia come maestro elementare, sia nella sua vita privata. Ho preso da lui questa capacità di raccontare storie. Mia madre, invece, è colei che ci ha sempre spronato a inseguire i nostri sogni. La fortuna di avere avuto genitori così viene completata con la figura dei miei fratelli: Gaetano, un talento straordinario, un artista versatile;  Riccardo, un bravissimo musicista; mia sorella Lella, brava scultrice e arredatrice, sposata con un musicista, a Londra. Come ti dicevo, una famiglia di artisti… 


Come dicevi, la tua è una famiglia di artisti. Questo lo spieghi bene nel tuo documentario “The Family Whistle”, in cui racconti la storia della famiglia Coppola e di come tu sia riuscito a ricostruire l’albero genealogico a partire dal 1775, ricongiungenti con loro. Sei cugino di Francis Ford Coppola. Come ci si sente ad essere cugino di uno dei più grandi registi della storia del cinema? Ci racconti esperienze, sensazioni ed emozioni provate, stando al suo fianco?
La mia nonna paterna era cugina di primo grado con Agostino Coppola, il nonno di Francis. Scopro proprio partendo dal cinema, come luogo, di essere suo parente e nel docufilm racconto tutto questo. Era difficile ricucire la tela della famiglia Coppola, ma in 25 anni di ricerche, sono riuscito a completare l’albero genealogico di tutta la famiglia e in otto anni a realizzare il docufilm. Un giorno, rimettendo a posto vecchie lettere, trovai quella di Carmine Coppola e chiesi a mio padre spiegazioni su questa nostra parentela con loro. Da lì cominciai il mio grande percorso di ricerca, nonostante le difficoltà a ricostruire tutto quel tempo perduto. Quando iniziai le ricerche, negli anni 80, non c’era internet, non c’era modo immediato per contattare le persone. Fu per caso, ascoltando una conversazione tra il mio regista e un suo amico, che riuscii ad avere finalmente modo di contattare Francis. Scrissi a Francis il primo Aprile del 1988. Lui mi rispose a Giugno, scrivendomi che mi avrebbe raggiunto a Cinecittà, l’autunno seguente. Finalmente ci incontrammo e fu un incontro molto emozionante. Conobbi suo padre, sua madre, suo fratello Agostino, il papà di Nicholas Cage. Gli dissi: “Francis è ora che tu torni a Bernalda”. Nella Primavera dell’ 89, venne a Bernalda, gli diedero la cittadinanza honoris causa e, in tutto questo percorso di ricongiungimento con luoghi e persone, non feci altri che alimentare la sua curiosità, che rimane ancora oggi viva, dopo venticinque anni dalla nostra reunion. Rcominciò a frequentare Bernalda e comprò questo palazzo ottocentesco, Palazzo Margherita, facendone un resort, dove anni dopo si sarebbe sposata sua figlia, la regista Sofia Coppola. Grazie alla realizzazione del documentario siamo riusciti a conservare la memoria storica, che tutti dovremmo tenere ben stretta, indipendentemente dal pregio, dalla celebrità della famiglia a cui apparteniamo. Ho semplicemente raccontato la storia di una famiglia di origini italiane con l’arte nel sangue, che è riuscita ad esportarla in tutto il mondo.


L’idea di realizzare un docufilm del genere, da dove nasce? C’è stato un evento scatenante?
Per scrivere un film occorre ci sia una “spina dorsale” e l’idea nasce davanti a un bicchiere di vino, mentre raccontavo a Francis le storie di nonno Agostino. Lui mi disse: “ Sei tu che dovresti fare il film perché sei tu che conosci bene la storia, hai talento e mi piace come la racconti” . Così cominciai a girare. In occasione del matrimonio di Sofia, proiettai per la prima volta il premontato del documentario. Vidi Francis commosso e mi disse: “ Michele, possiamo mostrarlo al mondo” e così abbiamo fatto. La sua approvazione mi ha ripagato di tutto. Tutto questo è un sogno che è diventato realtà, come mamma mi ha insegnato. Agostino, diceva: “Fate la vostra vita ma non perdete mai la musica”; mia mamma diceva: “Fate la vostra vita ma non smettete mai di sognare”.

Vedendo il documentario si capisce il legame profondo che hai con Bernalda. Cosa rappresenta per te?
A Bernalda c’è una grande possibilità di respirare il tempo. C’è la possibilità di non avere fretta, di avere il tempo di osservare le cose, di contemplarle e di viverle. Credo Bernalda sia stata una grande opportunità per sviluppare la nostra creatività in famiglia.



Hai dimostrato un esordio notevole con questo docufilm, ricevendo, nel 2016, il primo premio come miglior fotografia al Boston International Festival. Hai lavorato a fianco di Francis ne Il Padrino - parte III e con Giuseppe Tornatore in Bàària. Che cosa ti hanno insegnato due registi di quel calibro?
Sono due registi enormi e da loro si impara davvero molto. Lavorare al loro fianco è stata un’ esperienza memorabile. Sono registi dotati di grande professionalità e umanità, che amano gli attori con cui lavorano, che costruiscono insieme all’attore il film e i personaggi. Non sempre si ha la fortuna di lavorare con registi del genere…

Quali sono i tuoi registi di riferimento e a quale tipo di cinema senti appartenere di più?

Ci sono grandi registi ovunque, ognuno nel proprio genere. Se dovessi scegliere direi Frank Capra, che ha saputo raccontare magistralmente il sogno americano e il sogno in genere; poi Kurosawa, Kubrick e tanti altri. Sono molto legato al neorealismo, quella verità assoluta, quelle immagini forti erano sensibilmente appetibili e mi emozionano sempre. Mi piace leggere tanto e di tutto, ascoltare tanto e tutto. Attingo da tutto. Ogni linguaggio è diverso e interessante. 




Intorno a te hanno gravitato artisti di un certo livello per creare il docufilm, come ad esempio tuo fratello Gaetano Russo, uno tra gli scenografi italiani più bravi. Chi è per te Gaetano, oltre ad essere tuo fratello, e che ruolo ha avuto nella creazione del film?
Gaetano è la luce, un vero artista. Riesce a dare pennellate di colore anche sulla mia tavolozza, se sto scrivendo o girando un film. Ha sempre intuizioni geniali e riesce a dare un senso a tutto, ad animarlo. Ci siamo sempre aiutati l’un l’altro. Gaetano è una grande opportunità, oltre che un grande fratello. Al docufilm, invero, ha contribuito tutta la famiglia: da Gaetano nell’estetica, nella grafica, scenografia ed ambientazione, a Riccardo per le musiche sino a tutti i consigli ricevuti dagli altri membri. L’idea grafica è di Gaetano: l’albero genealogico che da cinque generazioni diventa pentagramma esprime esattamente ciò che lega la nostra famiglia : la musica


Hai altri progetti? E se sì, ci puoi svelare qualcosa in anteprima?
Ho finito di scrivere una sceneggiatura che vorrei girare in Basilicata, fra i sassi di Matera, tratta da una storia realmente accaduta un secolo fa e che si muove attorno ad un personaggio cardine di questa storia che, guarda caso, è un sognatore. É un personaggio che pensava, attraverso l’arte, di risollevare la condizione miserevole in cui versava la Lucania in quel tempo. I lucani sono sognatori per antonomasia. 

Un ultima domanda, la più significativa: cosa rappresenta  per te il fischio? Ti capita di usarlo realmente?

Sì, conservo il mio fischio, un po’ per gioco, un po’ per istinto. Lo uso con mio figlio come faceva papà con noi per richiamarci se era pronto il pranzo, se eravamo al mare o per strada giocare. Il fischio è musica, è un suono fatto da poche note, che distingue una famiglia dall’altra; che distingue una cultura, una forma mentis, se così si può dire, da una famiglia all’altra. É senso di appartenenza del nucleo familiare e della comunità. Dentro al fischio ci sono tutte le sfumature di paura, consigli, raccomandazioni, spensieratezza, gioia. É un mezzo vero e proprio di comunicazione che sostituisce le parole. In quelle tre note senti tutto. É musica e, d’altronde, nella nostra famiglia, non poteva essere mezzo migliore.

domenica 10 dicembre 2017

Non si sevizia (un) Paperino: quando Fulci raccontò la strage di Bitonto


Tra il 1971 e 1972, a Bitonto, cinque bambini  furono trovati in un pozzo, senza vita. Ancora nessun colpevole per la tragedia, da allora. 
Sono passati quarantacinque anni e, come tutti i delitti irrisolti, vengono lasciati marcire nelle carte e nella memoria occultata da altri eventi, soprattutto quando si parla di un luogo ove la povertà faceva da padrona, rendendo quasi naturale e legittima l’uccisione di esseri umani. 
Tuttavia, il genio di Lucio Fulci, prolifico regista romano, capace di  “terrorizzare” pubblico quanto tutti i generi di cinema da lui toccati, con il suo stile crudo e schietto prese ispirazione da quel fatto terribile e realizzò il capolavoro “Non si sevizia un Paperino”. 


Il film fu, ed è tuttora, decretato come la summa stilistica di Fulci, ritenuto fondamentale per il giallo italiano, ove convivevano, con sapienza - nell'habitat horror- neorealismo, commedia, thriller e spy story,  Il regista riuscì a smascherare - o forse meglio a creare - quell’assassino mai trovato, con una chiave apparentemente anticlericale e immorale e apparentemente facile. Le ambientazioni furono adattate in un contesto rurale e povero dell’estremo sud lucano e tale scelta, costituiva una novità nel panorama del giallo cinematografico di quel tempo.


L'opera inizia con la ripresa del paesaggio di Accendura, luogo dal nome fittizio, adattato dal nome di Accettura, un paesino in provincia di Matera. Fulci, tuttavia, girò poche scene in Basilicata e molti esterni furono girati in Puglia e a Pietrasecca, in provincia dell'Aquila, nonostante l’anima verace e grezza di personaggi e ambienti, rispecchiassero in toto quella lucana.
Il paesaggio di verdi colline interrotte dal ponte di cemento  sembra squarciare la morbidezza e l’innocenza della natura. Tale contrasto di elementi fu coadiuvato dal compositore Riz Ortolani, le cui colonne sonore univano dolcezza della melodia alla crudeltà delle immagini.
L’inizio del film mostra il disseppellimento dello scheletro di un neonato da parte della “maciara” di Accendura, interpretata da una straordinaria Florinda Bolkan, già nota per la sua parte precedente nel giallo cult  “Una lucertola con la pelle di donna”, del 1977. 




Nella scena successiva compaiono dei bambini, in chiesa, intenti a pregare. Per quei bambini, la preghiera è una “veste” che maschera gli impulsi ormonali di adolescenti in erba. Sono attratti dalle donne, dalle prostitute, dal sesso, dalle riviste pornografiche. Non a caso questo film fu ampiamente criticato e ritenuto vergognoso. 
Un’opera dissacrante, cruda, dove non si risparmiava nessuna pietà sulla ingenua figura del bambino, ora intento a pregare, ora intento a giocare al pallone, ora intento a essere curioso sul sesso. 
I bambini non erano più bambini e questo, Fulci, teneva a chiarirlo : dalle forti Gauloises fumate dai minori, alle pulsioni di spiare il sesso fra adulti, sino alla più particolare ripresa delle fattezze di un bambino che, avviandosi verso l’uscita dalla chiesa, non è più bambino, ma adulto. 
Si rovescia ogni stereotipo, pur mantenendo il sacrifico dei bambini della storia originale: i bambini non più bambini e, gli adulti, visti come orpelli piagnucolanti e subdoli. 
I bambini, tuttavia, sono punibili dall’ipocrisia e bigottismo ma sono pianti nella loro morte, esattamente come accade agli adulti: negati dalla vita, amati dalla morte. 
L’operazione del regista, infatti, fu proprio il superamento del pensiero del tempo, il superamento degli stereotipi sul possibile assassino ed anche del superamento anticlericale, oltre che di ceto sociale. 
Imputabili di reato di omicidio sono vari personaggi: il guardone Barra, ben presto scagionato; lo zio Francesco (George Wilson); la “maciara" che si autodichiara colpevole della morte dei primi due bambini attraverso la magia nera e la bionda e ricca Patrizia, una ragazza confinata nel luogo per scappare alle tentazioni della droga, da cui non uscirà e che a causa di quella ne era indagata.
Il personaggio di Patrizia, interpretata da Barbara Bouchet, fu molto discusso e fu oggetto di controversie e denunce. 



La scena in cui la  Bouchet si presenta nuda e ammiccante davanti a uno dei ragazzini, fu considerata di una morbosità e scandalo unici per quel tempo. Proprio a causa di ciò, Fulci fu incriminato ma ben presto scagionato, in quanto non vi fu nessuna scena di nudo davanti al piccolo attore. Fu utilizzato, per i controcampi, Domenico Semeraro, affetto da nanismo. 
Curioso notare che il cognome Semeraro era anche quello reale della nonna di tre dei bambini uccisi realmente nella strage di Bitonto, indagata ma poi scagionata.
Se i bambini non sono più bambini e se nessuno degli indiziati si rivelava vero colpevole, allora chi poteva esserlo davvero? 
Se i bambini non sono più bambini, gli adulti prendono il loro posto. Le reazioni degli adulti sono talmente senza nervo e assenti nella difesa. Persino le forze dell’ordine non hanno potere.  Persino la magia nera non ha più potere. Tutta l’autorità e le superstizioni delle cariche visibili e invisibili non hanno più valore. 
Nessun adulto, tranne il giornalista di cronaca nera, interpretato dal compianto Tomas Milian, è in grado di difendersi: gli adulti sono indifesi ma il giornalista no. 
Il giornalista è una figura risoluta e a tratti sfrontata, che diventerà eroe, trasformandosi esso stesso in assassino del vero colpevole. Tutto questo a causa della testa di un paperino di plastica, che non era altri che una metafora oggetto per indicare il bambino, o meglio, i bambini uccisi e che diede pure non pochi problemi a Fulci. Infatti, il film, doveva intitolarsi “Non si sevizia Paperino”. La Disney ebbe a ridire sul titolo ma con uno stratagemma grafico mascherarono un poco quel “un”, trovando così una soluzione per far rimanere in qualche modo il titolo originale. Manca citare la figura fondamentale: il prete Don Alberto. La parte fu affidata a Marc Porel, a cui interpretazione fu giudicata una delle migliori della sua carriera. Don Alberto era figlio di Aurelia (Irene Papas) e fratello della piccola Malvina. 


Don Alberto (Marc Porel)


Quel prete onnisciente nei confronti degli cittadini, giovane e dal bell’aspetto, che si lascia smascherare nelle sue debolezze cedendo alla sigaretta offertagli da giornalista. Chi trasgredisce una regola, potrebbe commettere qualsiasi altro peccato. Tale affermazione si, forse, si veste meglio da domanda... 
Fulci avverte lo spettatore già con quel piccolo particolare che, infatti, si rivelerà nel mostrare la colpevolezza del prete. Lui era l’assassino dei bambini; lui che non trasgredisce mai nei confronti del sesso o delle donne da guardare, ma uccide per riportare tutto a un certo candore e "ordine". 
Con la scena finale del combattimento tra Milian e Porel, il regista mostra la trasformazione del volto del prete, che precipita dal burrone, in caduta libera: un Lucifero dalle sembianze disumane a testa in giù, in picchiata, nel vuoto, ove la macchina da presa esalta non più il volto angelico del prete ma un orribile pupazzo deformato, trasformato, ribaltato, esattamente come si trasforma il volto durante un esorcismo, mettendone in luce la mostruosità, grazie agli effetti speciali del maestro Carlo Rambaldi.
Per quel prete tormentato la morte era esorcismo dal dolore. 
Fulci veste il finale di anticlericalismo e si incarna nello spirito. A quel tempo, occorreva mostrare l’umanità anche nelle divise. 
Il rispetto per una tonaca veniva scalfita e interrotta dal regista che, in quel momento, si sostituiva all’entità giudicante: a Dio. 
Consumati i drammi, il dolore, le giustizie private e la morte, Fulci fa accettare al pubblico il gesto di difesa del giornalista portato a uccidere per salvarsi e per salvare la piccola sorellina del prete Malvina, rea, a suo modo, di aver staccato la testa a quel paperino durante l’assassinio di un bambino; lei, che sarebbe dovuta morire di lì a poco, per opera di suo fratello. 
L’etimologia del nome Malvina, che spesso troviamo in letteratura, assume diversi significati. In questo caso, è suggestivo e curioso pensare derivi dal tedesco “mal-win”, letteralmente “amica della giustizia” ed il ruolo della piccola è stato quello di fare giustizia, smascherando il colpevole dei tragici fatti. Il colpevole principale è uno ma gli assassini, in realtà, molti di più. Non dimentichiamo la terribile scena del massacro della "magiara" Bolkan, nel cimitero, da parte di alcuni uomini che con una violenza inaudita pensavano di fare giustizia. Ognuno vittima e carnefice allo stesso tempo.

Il finale riprende le dolci e verdi colline dell’inizio, non più solo cornice di un paese povero e rurale, ma cornice delle perversioni umane. 
Fulci si ispirò alla triste storia della strage di quei poveri bambini e l’ha raccontata -a modo suo- lasciando allo spettatore un amaro dubbio sulla realtà di tanti altri crimini commessi e sulla natura di quella giustizia, ove il confine tra vittima e carnefice, colpevole e innocente, divengono un vero e proprio rompicapo e riflessione profonda.

domenica 12 novembre 2017

De Scalzi-Renanera: quando la musica unisce due terre lontane

articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia


Un incontro con Antonio Deodati, produttore e musicista della band lucana Renanera e con l’artista genovese Vittorio De Scalzi, storico leader, fondatore dei New Trolls. 


Antonio, sono approdata a voi grazie all’intervista con la professoressa Patrizia del Puente, occupandomi del gemellaggio tra dialetto ligure e lucano. (Per leggere articolo precedente clicca qui)
Prima di parlare della vostra band, come è nata la curiosa collaborazione con Vittorio de Scalzi e perché?

Conobbi Vittorio nel 2009, quando ero direttore eventi di “Casa Sanremo”, ospitandolo in uno showcase. Negli anni successivi, rimanendo in amicizia, ci siamo incontrati con piacere. 
Mentre preparavo l’album omonimo del gruppo “Renanera”, con Eugenio Bennato, mi sono trovato dinanzi a una locandina di Vittorio e così ho pensato fosse davvero interessante poter collaborare con lui e infatti così è stato, ed è. Stiamo facendo un vero e proprio progetto di incontro tra due culture, quella lucana e quella genovese, scrivendo ex-novo alcuni testi e raccontando anche la storia che ci unisce, i punti di contatto come quella dei Doria, ad esempio, che hanno fondato delle cittadine come Tursi, in provincia di Matera e non a caso a Genova il Palazzo dei Doria, è detto Palazzo Tursi. Con Vittorio abbiamo intrapreso un percorso musicale, da più di un anno, e abbiamo deciso di collaborare con un pezzo che abbiamo inserito nell’altro album prodotto da l’etichetta Taranta Power, diretto da Eugenio Bennato. Il pezzo si intitola “Quante botte” e narra dei pirati saraceni che saccheggiarono sia Liguria che Lucania; raccontiamo un dolore comune di due popoli distanti tra loro ma che abbiamo trasformato in musica, dunque abbiamo musicalmente unito e liberato. In più, nell’album, ci saranno dei rifacimenti delle canzoni dei New Trolls con le nostre sonorità, ad esempio “Faccia di cane” e  “Quella carezza della sera”. Vittorio, inoltre era molto amico di De André e quindi abbiamo inserito anche pezzi come “Creuza de ma”, Peró con una particolarità, abbiamo unito la versione col testo originale con quella napoletana di Teresa De Sio, ma con le nostre sonorità etniche lucane.


vittorio_de_scalzi_new_trolls_renanera
Renanera e Vittorio De Scalzi in concerto
Siete stati animatori della serata di Capodanno 2017 a Potenza e la vostra energia festosa e profonda ha pervaso tutto il pubblico. So che avete molti fan, sebbene i vostro genere non sia esattamente mainstream. Come vi rapportate sia col mercato che col pubblico?
Abbiamo molti fan che ci seguono. Le comunità lucane sono sparse in Italia e nel mondo e questo ci supporta molto. Siamo inoltre stati candidati con l’album “Renanera” al premio Tenco per gli album dialettali, arrivando alla fase finale. Io, essendo produttore discografico, conosco bene il mercato ed ho lavorato con molti artisti italiani famosi, tra cui Mango, Elena di Cioccio, Laura Valente, Marie Claire D'Ubaldo, la vocalist brasiliana Corona, Federico Poggipollini ed ho prodotto anche Unaderosa che ora è mia moglie, oltre che la voce e autrice dei testi del gruppo. La discografia è un po’ mortificante quando si investe su un progetto pop; c’è troppa inflazione, affollamento, e poca voglia di fare da parte delle etichette discografiche. La musica etnica e la world music italiana saltano a piè pari questo meccanismo dello show business, riappriopriandosi così della propria arte, musica e carriera discografica. ll pubblico è attento e  selezionato e non è un pubblico presunto: lo si deduce dalle statistiche di canali come Youtube e Spotify. Questo ci permette di vivere del nostro lavoro e di continuare con vera passione.

Quanti album avete realizzato, ad oggi?
Ad oggi, cinque album, due dei quali di prossima uscita. Uno é quello con Vittorio De Scalzi che però non ha ancora un titolo, ma col quale festeggeremo i cinquant’ anni della sua carriera, al San Carlo di Napoli per una produzione Rai5, a metà Maggio. L'altro album che stiamo quasi ultimato è “Renanera Duepuntozero" in cui abbiamo inserito e strutturato sonorità nuovissime rispetto agli album precedenti , con la collaborazione di artisti come Marcello Coleman degli Almamegretta, di cui interpretiamo un suo brano storico, “Rena Nera”. Il primo album “ Troppo Sud” fu diffuso dal Quotidiano della Basilicata e fu un omaggio ai lettori in duemila copie; il secondo, “Renanera” è stato pubblicato da Taranta Power, con la direzione artistica di Eugenio Bennato, uno dei fondatori della musica world italiana, al cui interno vi sono tantissime collaborazioni con grandi artisti, come ad esempio quella con Michele Placido, con il quale abbiamo fatto insieme a Bennato “ Brigante se more”, l’unica delle versioni ufficiali che esistono dopo quella edita dai Musicanova; Infine c’è “Renanera in concerto” dal vivo, registrato a Torino e Asti, in occasione dei concerti in Piemonte a fine 2015. Rispetto alle  altre band lucane dialettali noi investiamo molto sugli sforzi di produzione e musicali. Mia moglie, “Titti” Unaderosa, ha un forte estro fisiologico, ha bisogno di scrivere come si ha bisogno di respirare ed è questo il nostro punto di forza. Nei videoclip di solito cerchiamo di comunicare messaggi ben precisi e abbiamo incrociato questo modus operandi da mainstream applicato alla musica etnica.

Potrei definirvi come un genere "melting pot"?
Hai centrato la parola: melting pot, che è esattamente quello che nel Mediterraneo sta accadendo. Il futuro della musica è proprio questo. L’apparenza è che le guerre, quello che sta accadendo ci divida e invece no; c’è il rovescio della medaglia, ovvero l’unione di persone che vogliono stare in pace col mondo. Al di là delle politiche e dei fattori economici, le persone per loro indole tendono a stare insieme e a mischiarsi: la musica deve unire e il nostro scopo è proprio quello: unire popoli e generazioni.


vittorio_de_scalzi_new_trolls
Vittorio De Scalzi, leader fondatore dei New Trolls
 Ed ora, la parola a Vittorio De Scalzi

Vittorio, cosa può dirci di questa curiosa unione tra dialetto ligure e lucano e di questa collaborazione?

Io e i Renanera lavoriamo un po’ da lontano, dato che io sto al nord e loro al sud. Abbiamo cercato dei punti di contatto dei nostri due dialetti, diversi ma simili allo stesso tempo. Simili perché hanno radici forti sul territorio e permettono un tipo di espressione diversa, diretta, immediata e musicale. I dialetti sono pieni di tronche e accenti che non ti aspetteresti nella lingua normale per cui si prestano a sequenze ritmiche, ed e’ davvero affascinante. Quando abbiamo scoperto il fatto di Tursi, è scattata la scintilla. Mi sono occupato del dialetto ligure già dalla fine degli anni ’60. Per esempio la canzone “Comme Te bella Zena" che tutti credono sia una canzone della tradizione antica ligure, invece l’ho scritta io. Il fatto di poter esportare una lingua e creare un’ unione con un altro dialetto è un’esperienza meravigliosa e intima. I Renanera sono artisti eccezionali e sono veramente felice di collaborare con loro. 

Lei era molto amico di Fabrizio De André. Può lasciarmi un ricordo del nostro grande artista? Che eredità ha lasciato?

De André ha lasciato una eredità enorme, direi che è il cantautore più cantautore di tutti. Ha abbracciato tanti generi diversi in tutto il suo excursus temporale che purtroppo si è interrotto. La cosa che mi manca è il suo prossimo disco… Chissà cosa avrebbe inventato? Ci manca perché era una persona curiosa, un artista e poeta vero, un ricercatore di suono ed emozioni. La collaborazione iniziale avuta con i New Trolls, era già fuori dalle righe per il mondo di allora, era un segno di ribellione per poi arrivare a realizzare “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, dove ho suonato alcune chitarre nel disco. Conservo un ricordo carino: da ragazzino andavo al mare al Lido di Genova e lui ci andava raramente ma quando arrivava, i miei amici che sapevano della mia passione per lui, mi dicevano “ É arrivato Faber!”  Avevo una chitarra con un altoparlante incorporato e andavo dappertutto per  fargli ascoltare le mie cose. Probabilmente ho colpito nel segno perché poi lui, pochi anni dopo, ha scritto i testi di “Senza Orario e Senza Bandiera”, il primo mio disco con i New Trolls.


L’unione della cultura ligure e lucana e quella dialettale, realizzata grazie ai Renanera e a Vittorio De Scalzi segue il desiderio della vera unità, dell’eliminazione dei confini nord -sud; aggiunge e aumenta quel senso di appartenenza che combatte ogni differenza generazionale, di classe, politica, economica e religiosa. La spirale quadratizzata dei Renanera, se guardata bene, è un labirinto aperto al mondo della musica che libera, unisce mente e cuore.


venerdì 3 novembre 2017

Liguria e Basilicata, amiche di lingua e di terra


Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

A tu per tu con la professoressa universitaria Patrizia Del Puente, per parlare di salvaguardia dei dialetti e del gemellaggio linguistico Ligure-Lucano 

I dialetti, in Italia, sono un patrimonio da salvaguardare. Parleremo di questo compito di studio e tutela dei vari dialetti con la docente universitaria glottologa e linguista di fama internazionale Patrizia Del Puente, attraverso il progetto A.L.Ba. Inoltre, una curiosa scoperta di affinità linguistica tra Liguria e Basilicata, con un approfondimento dello straordinario album di Fabrizio de André, “Crêuza de mä”. 


Cos’ è il progetto A.L.Ba. e quali obiettivi si pone?

Il progetto A.L.Ba. significa Atlante Linguistico della Basilicata e si pone come un’istituzione che mira a sensibilizzare i lucani stessi all’importanza del dialetto. La Basilicata è la regione con la situazione dialettale più interessante ed è per questo che ho scelto di occuparmene. A.L.Ba. ha gli obiettivi di raccogliere tutte le lingue della Basilicata, di tutti i suoi 131 comuni e di salvaguardarle. Oggi, con internet e i nuovi mezzi di comunicazione, vengono preferite dai giovani lingue ritenute più “prestigiose” che rischiano di condizionare e affrettare un mutamento non naturale, portando a una maggiore italianizzazione e addirittura anglicizzazione dell’italiano. Non solo si perdono parole e fonemi ma si finisce per perdere strutture sintattiche e morfologiche. Questo progetto regionale si spera un giorno si estenderà a tutta l’Italia, inserendo magari nelle ore scolastiche studi sui dialetti.

Perché è importante salvaguardare il patrimonio linguistico della Basilicata come tutto il patrimonio linguistico di ogni luogo?
I dialetti sono scrigno storico e di identità; sono un serbatoio da cui l’italiano ha sempre attinto. Ricordiamo che alcuni luoghi non hanno documenti storici e non hanno nulla per ricostruire la propria identità. L’unico modo per ricostruirne identità è studiarne la lingua. Sul territorio della Basilicata vi sono colonie gallo-italiche, provenienti dalla parte più occidentali della Liguria, al confine della zona del Monferrato. Addirittura, la provenienza della Liguria è stata mediata da una puntata in Sicilia e da lì in poi, i lucani, sarebbero risaliti in Basilicata stabilendovisi. Questo è accaduto in particolare nelle colonie di Piceno e di Tito. Occorre dire e interessare le persone che i lucani vengono dalla Liguria e che hanno avuto un contatto con la cultura siciliana; questo lo possiamo fare grazie al fatto che queste lingue si siano salvate nel tempo.

Dunque la Basilicata e la Liguria potremmo definirle “ Amiche di lingua”?
Assolutamente si. Liguria e Basilicata sono terre di accoglienza e, la Liguria, per certe zone della Basilicata, come già accennato, ne è madre di lingua.



fabrizio_de_andré_creuza_de_ma
Fabrizio De André

Questo fatto interessante si collega a uno dei cantautori più importanti della storia della musica italiana: il genovese Fabrizio de Andrè, il quale si deduce abbia avuto un rapporto stretto con la Basilicata grazie all’album “Anime Salve”, in particolare grazie alla canzone “Ho visto Nina volare”. Nel testo c’è un riferimento diretto alla cultura lucana del “masticare e sputare” delle contadine lucane. Questo legame tra  Liguria e Basilicata porta a chiederci se, da punto di vista linguistico/dialettale all’interno di album totalmente dialettali e straordinari come “Creuza de Ma”, ci siano affinità tra dialetto ligure e lucano e se sì, quali?

Tutti i dialetti presentano affinità perché derivano dal latino volgare. Per quanto riguarda il discorso della Basilicata, dobbiamo pensare a vari tipi di dialetti e sicuramente i dialetti che si parlano nelle colonie gallo italiche condividono, oltre al lessico, anche tratti fonetici che appartengono al ligure. Uno per tutti è il fenomeno della lenizione, che marca molto il genovese. In Crêuza de mä, ci sono molte parole che perdono l’antica ’t’ latina e la ‘ch' latina e questi sono tratti che troviamo nei dialetti ad esempio di Potenza, di Pietragalla, Pignola, Picerno, Tito, ecc., come pure il troncamento di altri participi. Quando De André è venuto qui, dunque, si sarà sentito in famiglia. De André era un grande e fine osservatore della lingua e lo si vede in tutti i suoi testi, non solo in quelli dialettali dell’album. Credo abbia percepito la Basilicata come una sorta di eden: il ligure che si incarna nei dialetti meridionali e i dialetti meridionali che si sposano col ligure.


Crêuza de mä è un’opera straordinaria, decretata da artisti famosi come David Byrne, leader dei Talking Heads, come una tra le opere migliori mai composte, non replicabile, sia per melodia e ricercatezza dei suoni. Ma ancor più eccezionale è l’operazione linguistica di De André, che ha esportato il dialetto ligure verace in mezzo mondo. Quale fu l’operazione vera di De André dal punto di vista linguistico nell’album?

De André ritrovava suggerimenti linguistici di ogni parte del mediterraneo dentro al dialetto ligure. Non dimentichiamo che ‘la lingua di Genova’ è la figlia di una grande repubblica marinara che in molti modi è entrata in contatto con le altre realtà linguistiche del mediterraneo. L’interferenza linguistica porta a contaminazione, che ne sono arricchimenti. De André non ha cercato di arricchire il dialetto verace dei testi ma ha riscontrato la presenza di altre lingue nel dialetto. Ha cercato le prove di quella mediterraneità che il genovese gli regalata costantemente; cercava la conferma di quel mondo mediterraneo che era tutto racchiuso nella lingua genovese. 
Nei racconti di  Crêuza de mä c’è una cultura e realtà che è genovese, ma può esser di qualsiasi altro paese del mediterraneo. De André voleva scrivere poesie del mediterraneo e voleva dimostrare che il mediterraneo si incarnava nel genovese.


Oltre a Crêuza de mä, quali altri album sarebbero importanti da conoscere e su cui fare riferimento per avere una panoramica precisa e interessante sui nostri dialetti?

C’è una serie di album dialettali sardi; ci sono una serie di album dialettali come quelli del primo Pino Daniele e ci sono album di musica popolare dilettale salentini e lucani, molto interessanti. C’è un gruppo lucano di musica popolare, gli “Arena Nera”, che hanno attuato un progetto fantastico, traducendo in dialetto lucano tutti i testi di De André con un risultato bellissimo. 

Liguria e Basilicata gemellate anche in questo.

giovedì 2 novembre 2017

VelEni: l’intreccio storico dal delitto Mattei al segreto di Emilio Colombo


Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

L'interessante indagine del giornalista Fabio Amendolara sul legame delle misteriosi morti di Mattei, Pasolini e De Mauro, tra intrighi di petrolio, potere, mafia e massoneria; i mandanti della scomparsa di De Mauro e del suo appunto sul famigerato “ Colpo di Stato” del principe Junio Valerio Borghese ; l’Italia più terrificante degli anni anni bui ed un filo conduttore: il presidente del Consiglio, Emilio Colombo.


fabio_amendolara_caso_mattei
Fabio Amendolara e il libro inchiesta VelEni


VelEni, già racchiude nel titolo ciò di cui tratta: si parla di petrolio, di potere, di corruzione, mafia e di chi ha fatto di tutto per stravolgere le sorti di quell’Italia che avrebbe voluto il presidente dell’Eni, Enrico Mattei. Si parla dell’Italia degli anni oscuri e tragici. VelEni, dunque, è il nuovo e appassionante libro di Fabio Amendolara, che racchiude in 123 pagine i misteri e le controversie più oscure del nostro paese: dal caso Mattei, passando per la morte di Pasolini, sino al sequestro e omicidio del giornalista Mauro De Mauro. Questa ampia ricostruzione giornalistica, offre una panoramica precisa su quel che successe nel trentennio più cupo d’Italia, attraverso migliaia di articoli, atti giudiziari delle procure di Palermo e Pavia, nonché le informative dei Carabinieri di Carlo Alberto dalla Chiesa e quelle delle investigazioni di Boris Giuliano, nelle carte dei servizi segreti. Con la prefazione di Giangavino Sulas, benvenuti nell’Italia dei misteri sotterrati dall’ ”alto” che si riapre dal “basso”, ancora una volta, grazie alla tenacia di chi vuole la verità.



caso_enrico_mattei_fabio_amendolara
Enrico Mattei
Quando ci occupiamo di misteri e delitti italiani, dobbiamo farlo con correttezza, attenendoci ai fatti, senza cadere in dietrologia spiccia o ipotesi fantasiose. É anche vero che le versioni dei fatti spesso sono molte e contrastanti, soprattutto quando si trascinano per tanto tempo e, in Italia, siamo campioni in questo. L’Italia è campionessa di confusione voluta e processi eterni, dunque è facile cadere in tranelli fantasiosi ma è pure molto più facile accomodarsi sulla negligenza e omertà, creando noia e indifferenza. Più difficile è ricostruire la verità, soprattutto quando questa è sempre stata occultata e magari finita in qualche tomba, insieme ai ‘padroni’.
Tutti i fatti importanti passati, sembrano cadere in una sorta di dimenticatoio: spesso raccontati in modo superficiale, assumono la veste dei ‘perditempo’ anziché d’interesse, indirizzati a un  pubblico “che non deve sapere” o che deve sapere a seconda del vento politico che tira. Cosa serve, oltre al mezzo televisivo, a volte deviante e deviato da chi dovrebbe dire la verità e farla conoscere, per trasmettere al pubblico quello che spetta sapere? Serve chiarezza, tenacia, costanza e ore perse di sonno, inseguendo ciò che i morti non possono più dire e che i vivi, molto spesso, non vogliono dire. Serve tornare a leggere, magari libri come questo.
In VelEni (Edizioni Il Castello, 2016)  questa componente d’inchiesta minuziosa, stravolgente e appassionante come una spy-story, fa chiarezza su alcune vicende che hanno coinvolto il nostro paese e soprattutto alcuni personaggi molto importanti: il presidente dell’Eni, Enrico Mattei; il giornalista de “L’Ora di Palermo”, Mauro de Mauro; lo scrittore, regista e giornalista PierPaolo Pasolini; l’allora presidente del consiglio Emilio Colombo; il regista d'inchiesta de “Il Caso Mattei”,  Francesco Rosi; la mafia, i servizi segreti italiani e americani e tanti altri saranno i protagonisti di questa lunga e complicata storia, raccontata dal giornalista Fabio Amendolara, che con maestria e semplicità di linguaggio, racconta  di minacce e omicidi, che avrebbero e hanno cambiato il corso del nostro paese. Amendolara già è molto conosciuto a livello nazionale per il suo giornalismo d’inchiesta, cercando sempre di apportare alle versioni ufficiali o ufficiose dei fatti, qualcosa in più, andando controcorrente, scovando nei delitti e nelle sparizioni più inspiegabili. E non si parla di fantasia, si parla di fatti, logica e ricostruzioni serie. Non perde tempo Amendolara e neppure il filo delle storie.
Ricordiamo il suo impegno nello scavare  e ricostruire fatti di altri rompicapo italiani, testimoniati nei libri “ Il segreto di Anna”(edizioni EM-Collana Ombre e Silenzi, 2014), relativo al caso Elisa Claps; ne “La colpa di Ottavia”(edizioni EM-Collana Ombre e Silenzi, 2011) una inchiesta sulla misteriosa scomparsa di Ottavia De Luise, come pure ne“ L’ultimo Giorno con gli Alamari”(edizioni EM-Collana Ombre e Silenzi, 2016), una controinchiesta giornalistica che collega la morte del brigadiere Turzi a quella della studentessa di Arce. 


“L’Italia degli anni bui” è ancora da scoprire, o forse, da strizzare come un dentifricio, finché l’ultima goccia di verità non verrà fuori. Questa è l’operazione di Fabio Amendolara, che “rivela una versione inedita e clamorosa di questo colossale, drammatico intrigo nel quale si intrecciano enormi interessi politici, strategici ed economici. Interessi per i quali la vita di un uomo vale zero.” scrive così Giangavino Sulas, nella  prefazione al libro.
Infatti, si parlerà proprio di quello che Emilio Colombo, non solo ministro ma anche affiliato al SID (servizio segreto italiano fino al 1977), si è portato nella tomba relativamente ai casi Mattei - De Mauro - Pasolini. Per il pubblico, il segreto dell’uccisione di troppi uomini per interessi economici e politici, sembra un fatto quasi normale, ma così non è. Tutti nasciamo per morire ma non è detto che si debba morire ammazzati da altri, anche se si ricoprono cariche importanti. La mafia ha insegnato che non si fa distinzione tra popolo e potere: quando un certo potere vuole il bene del popolo, lo si uccide. Infatti in questo libro, una volta di più, si farà chiarezza sull’immagine della mafia e di quanto sia radicata e ‘statale’.
Quanti falsi innocenti o presunti assassini e quanti indagini sbagliate? Quanti depistaggi? Sempre troppi. In questo caso ce n’è uno e bello grande, che collega il caso Mattei con la sparizione di De Mauro e chissà con quanti altri morti, oltre a Pier Paolo Pasolini.
Allora si ritorna al punto focale di quel periodo e si scopre quanto la CIA, la massoneria, la mafia e Andreotti fossero collegati al  Golpe del Principe Valerio Borghese, capo della Decima Mas, con “duemila picciotti pronti all’azione”; si scopre perché Carlo Alberto Dalla Chiesa fu restio a procedere nelle indagini, facendo quasi dietro front sul caso De Mauro e perché il regista Francesco Rosi che incaricò il giornalista Mauro de Mauro per realizzare film su Mattei, ebbe paura e fu minacciato. Chi minacciava Mattei? Chi, Rosi? Chi osteggiava le indagini e perché molti ritrattavano? 
Perché fu un “ordine di forze superiori”, così dicono i carabinieri di Pavia e si dedurrà il perché Marcello Dell’Utri, complicò le indagini con la sua rivelazione di un capitolo di “Petrolio", il romanzo incompiuto e postumo di Pier Paolo Pasolini,  che ricordiamo essere stato ucciso anch’egli, dalle “forze superiori”, le quali sapevano che sapeva troppo.
Chi vuole il bene del proprio paese, purtroppo non può farlo in Italia, a quanto pare e chi rischia per la propria pelle, spesso tace o nega. Gli anni di piombo non hanno mai smesso di esistere. E se oggi si riaprono inchieste e si cerca la verità, non è mai abbastanza per riparare alle tragedie del passato. I cicli storici esistono, i misteri esisteranno finché ci sarà un certo tipo di potere e di omertà. 

Con energia e efficacia, Amendolara  dipana i numerosi fili della matassa ingrovigliata, attraverso documenti investigativi e dichiarazioni dei pentiti di mafia. Nonostante siano passati anni, ciò che è stato scritto nel passato, grazie a questa ricostruzione, sembra sempre essere attuale e moderno, moderno come l’Italia che voleva Mattei, ma che per ragioni di interesse petrolifero e di potere, fu meglio bloccare, come raccontato dalle testimonianze di altri coinvolti col caso. E siamo proprio sicuri che il film “ Il Caso Mattei” abbia raccontato tutta la verità? Anche qui sorge l’ombra del dubbio: tra finanziatori loschi e minacce, Francesco Rosi portò a compimento quello che De Mauro aveva raccolto per lui, pagando con la vita. De Mauro sapeva troppo e anche Rosi, probabilmente.
Mafia? Concorrenza? Invidia? Stato? Soldi? Petrolio? Unite tutti gli elementi e scoprirete perché morirono innovatori e  anti politici come Mattei  o chi cercò “rogna” per eliminare il marcio, facendo emergere cose scottanti, come fecero De Mauro e Pasolini. Il libro di Amendolara fa luce su tutti quei misteri  e tragedie italiane, che non solo hanno coinvolto giornalisti, magistrati e gente legata al potere, ma anche poveri civili innocenti, come ad esempio la terribile strage di Bologna. 
Questo libro è indirizzato a tutti: sia al pubblico profano, sia al più curioso e appassionato.
Da ciò che già sappiamo e che egregiamente alcuni giornalisti hanno saputo raccontarci mantenendosi ritti sul filo della verità -chi più chi meno- come Enzo Biagi, Carlo Lucarelli e Giovanni Minoli, Amendolara ne segue le tracce, ma con qualche precisazione e colpo di scena in più. 

pier_paolo_pasolini_caso_mattei
Pier Paolo Pasolini
Vorrei ricordare, inoltre, il film di recente uscita, “La Macchinazione” (2016) del regista David Grieco: come quando si insabbiano alcune indagini scomode, si è un po' insabbiato anche questo film. Forse perché dà fastidio, Forse perché si racconta cosa c’era dietro a quella grande macchinazione di Stato che uccise Pasolini. E se Pasolini , in Petrolio, riuscì a far  capire che il fantomatico personaggio Troya, non era altro che il presidente successore dell’Eni, Eugenio Cefis, in VelEni possiamo collegare non solo Cefis alla morte di Pasolini, ma anche al film di Francesco Rosi “Il caso Mattei”, a Enrico Mattei stesso e e alla sparizione del giornalista De Mauro. Dalla pista mafiosa al depistaggio di Stato, arriveremo a scavare nella tomba dell’allora Presidente Emilio Colombo, un democristiano che forse avrebbe dovuto dire qualcosa in più, ma non l’ha detta: il suo nome appare  numerose volte, accanto a quello di Cefis, in “ Questo è Cefis” il libro di Giorgio Steimez, ritirato dalla Montedison all’epoca, per ovvi e sconvenienti motivi. Secondo la polizia di Pavia, Colombo era a conoscenza dei fatti, relativi ai due delitti, anche se chi lavorò per lui, concluse la relazione su Mattei, con l’ultimo depistaggio, dichiarandolo come “Incidente”. Tutto gira intorno al potere e al petrolio, ai soldi e alla politica, alla droga, alla mafia, ai nostalgici nazisti e fascisti e ai complici del sequestro De Mauro: tutto girava e gira intorno agli italiani tenuti all’oscuro da una certa architettura politica e di potere. L’omertà è una caratteristica mafiosa e quando alcuni dirigenti e forze dell’ordine bloccano le indagini dichiarandole come incidenti o questioni di mafia, si intuisce quanto la pratica del “niente so e niente voglio sapere" sia radicata in Italia, anche se questo, forse, è un intrigo internazionale, più che unicamente Italiano. Occultare, depistare, ingannare, rinnegare: questa è la missione del potere malvagio e senza scrupoli ma per fortuna qualche combattente onesto e indipendente, esiste.

Quando rapirono De Mauro “andò via la luce per quarantacinque minuti”, ricorda così una delle figlie di De Mauro. Fabio Amendolara, attraverso il suo lavoro e la ricerca della verità, ha riacceso quella luce, intrecciando alla storia già scritta e detta, un elemento in più. E poco importa se Colombo non potrà parlare. La verità viene sempre a galla, prima o poi.

Un ecovilaggio per ripartire dall’uomo



Articolo di rilevanza nazionale pubblicato su Il Roma Cronache Lucane

La morsa frenetica delle metropoli che ci assale ogni giorno e ci costringe a vivere in perpetuo movimento, spesso mette l’uomo in condizione di smarrire la propria interiorità e le proprie qualità. Se l’identità ci è data da numeri e nomi, la nostra vera natura richiama ad altro. Ecco perché nascono eco-villaggi e vi è la necessità di andare fuori dal caos cittadino, paradossalmente dato dalla troppa ragione automatizzata e dal poco istinto; vi è necessità di condivisione e di ricerca della vera semplicità, delle nostre origini e potenzialità. 

In Italia, vi sono decine di ecovillaggi e tra questi vi è Il Borgo dei Semplici, una struttura a misura d’uomo dove si può ritrovare quell’equilibrio e quell' armonia che troppo spesso si sta perdendo. Ideato dall’architetto Alessandro Di Simone, situato in un enclave di territorio toscano circondato dall'Emilia Romagna, questo luogo speciale aiuta a ritrovarsi a contatto con la natura e aiuta a trovare quell’equilibrio che tante persone richiedono, causa vita stressante e determinati eventi che richiedono all’uomo di ritrovare se stesso in un contesto di sfida, di rinuncia dei comfort ma di grande beneficio in salute, di non dipendenza estrema dal denaro, fondata sul ricatto di esso.


Alessandro, come è nata l’idea dell’eco-villaggio? Spiegaci di cosa si tratta e come è strutturato.
Il Borgo Dei Semplici deve il suo nome alle piante officinali che in passato erano chiamate “semplici”, come pure lo deve alla ricerca verso la semplicità perduta, verso una vita semplice fatta di terra, da contrapporre alla complessità della vita urbana contemporanea. Si è costituito come co-housing e società agricola nel 2011. Vi è la possibilità di vivere in modo differente dai modelli proposti, senza entrare in conflitto con essi, ma dimostrandone la fattività e quindi imponendosi come modello replicabile adatto a tutti coloro che vogliono tentare questa sfida. É composto da tre nuclei familiari che si sono strutturati come Co-housing. Vi sono delle parti comuni, come la biblioteca, la yurta, la sala di yoga, l’officina, la pedana esterna per gli spettacoli estivi, gli orti, il cerchio di pietra, e il cerchio del fuoco, che si condividono, e degli spazi privati dove ogni nucleo familiare vive autonomamente. Il tutto immerso nel verde e da aria pulita ed è aperto a tutti. Dal 2015 si è ristrutturato un fabbricato come locanda, dove è possibile mangiare, e pernottare. Questa diciamo che è la nostra principale fonte di sostentamento. 

Cosa ti ha spinto a impegnarti in un progetto tale?
É stata la necessità di cambiare radicalmente la mia vita in cui non mi riconoscevo più, causa di un’ insofferenza profonda e sorda che si era trasformata in malattia. L’esperienza della malattia, anzi del post-mortem, ti rende consapevole di molte cose. La medicina moderna tenta di resettare ciò che ti è accaduto, di guarirti in fretta e di dimenticare il dolore e la sofferenza per ripartire complice e servo dei costi-benefici. La presa di coscienza e il cambiamento si sono tradotti nel Borgo dei Semplici, che per me rappresenta una via di guarigione, un continuare a credere alla vita nella vita stessa, senza cancellare nulla. 

Tu, precisamente di cosa ti occupi? Ognuno ha una sua mansione?
Si, ci dividiamo i compiti. C’è chi si occupa delle piante, chi delle persone e io mi occupo delle “pietre” , cioè mi occupo della costruzione e della manutenzione delle case, e del luogo. Ho avuto una lunga esperienza come architetto, come progettista e come capocantiere. Credo che in questa società del Nomos dell’ “Aria”, sia indispensabile ritrovare il contatto con il mondo del fare. Prendere con le mani le pietre e porle uno sopra l’altra per erigere un muro non è la stessa cosa che disegnare quel muro dentro uno schermo. Nella pratica manuale c’è una sapienza che non può essere acquisita se non facendo materialmente le cose. 





Credo sia giusto la gente capisca che un ecovillaggio non è una semplice vacanza per rilassarsi, non è una “setta”, ma dovrebbe essere un nuovo approccio alla socialità e alla vita, un passaggio verso l’evoluzione consapevole, all’armonia tanto agognata dall’uomo ma che l’uomo fatica a praticare, soprattutto se immerso nella vita che pensa di vivere, mentre sopravvive a malapena. Sei d’accordo con me?
In verità la vita semplice è dura. Comporta ogni giorno uno sforzo a cui non siamo abituati. Il contatto con la terra ci cambia interiormente ci porta a ritmi diversi e lontani dalla vita urbana. Questo dà un grande sollievo ma anche una grande fatica. La comodità che noi pensiamo di vivere nelle metropoli non vuol dire benessere psicofisico. Io ne sono la prova, come tanti altri fuggiti da certe routine e certi luoghi asfittici. Abitare in un eco-villaggio è una vera e propria sfida ma i benefici che se ne traggono sono davvero notevoli.

Da quest’anno è anche nata l’Università Popolare Maitri. In cosa consiste?
L’Università é stata la naturale trasformazione dell’associazione di promozione sociale IMDON, di cui sono consigliere da anni, che fa formazione e divulga i temi della salute naturale e del valore della vita. Dopo tante esperienze di associazionismo e volontariato, é stata riconosciuto il valore di questa esperienza di ricerca che dura da più di 30 anni nell’ambito della consapevolezza olistica, della coscienza ecologica, delle medicine dei popoli nativi. Riconosce una visione che sta alla base di un nuovo paradigma verso un futuro possibile.


In Italia sono già presenti numerosi ecovillaggi. Pensi che crescano e siano utili alla crescita e alla riscoperta dell’uomo, soprattutto in ambito spirituale?
Credo siano utili perché rappresentano un esempio reale dove sia possibile vivere anche in modi differenti da quelli attuali. In merito all’ambito spirituale, direi che non esiste ambito spirituale una volta tornati alla terra. La spiritualità non è più relegata in un ambito della vita dell’uomo ma è parte della stessa della sua vita quotidiana.  Contemplare questo mondo come la nostra dimora e non come una vacca da mungere sarebbe già un gran passo avanti.



Come immagini il futuro dell’Italia? Anzi, come immagini quello dell’umanità?
Vorrei che il nostro paese tornasse alle sue origini comunali, tante comunità in rete in un federalismo, molto “olivettiano” lo so, ma non penso si possa fare di meglio.
Il fenomeno umano percorre un cammino impervio. L’unica sua via di realizzazione e nell’acquisire maggiore consapevolezza sfuggendo al giogo della ragione. Occorre attivare meglio quella che chiamiamo “intelligenza del cuore”, cioè la sapienza.


Per chiunque volesse prenotare e vivere questa esperienza visitare il sito http://www.alessandrodisimone.it/

domenica 29 ottobre 2017

Pietro Mereu, il regista dell'Italia in via di estinzione

sardegna paesaggio

Mi trovo in Sardegna, precisamente nella regione dell’ Ogliastra, immersa tra l’incanto di acque cristalline e aspri rilievi che sembrano descrivere il carattere del suo popolo, con i suoi contrasti. Mi trovo qui perché attirata dalla realtà sarda raccontata con maestria nei documentari del regista e autore tv ogliastrino, Pietro Mereu


Contatto il regista presentandomi e dichiarandogli che sono lì a ‘causa’ sua. Stupito e lusingato mi concede un’intervista, dicendomi che stava proprio a pochi minuti da dove mi trovavo. Comincia a raccontare della sua famiglia composta da mamma insegnante, papà imprenditore e i suoi tre fratelli, Barbara, Michele e Marcello, i quali riescono a farsi conoscere un po’ in tutto il mondo. Mi racconta di sé, della sua carriera e della sua abilità di descrivere persone e mestieri che via via stanno scomparendo...


Facciamo un gioco…cosa ti fanno venire in mente Barbara, Michele, Marcello e… Pietro?
Barbara, la tenacia; Michele, la serietà; Marcello, l’intraprendenza e io…la fantasia!

E se ti dico Ogliastra?
La casa

In che ambiente sei cresciuto e quali strade ti hanno condotto al mondo del cinema e della tv?
Sono nato a Lanusei e cresciuto in un ambiente fertile per la creatività. Ero un bambino curioso e leggevo tantissimo. Mia madre mi ha spinto sempre ad accrescere la mia fantasia. Il mio maestro, Pippo Calderone, ci iniziò al teatro. L’attitudine dell’attore l’ho sempre avuta, puntando a diventare comico. A 27 anni mi sono trasferito a Milano dove ho fatto scuola di teatro. Dopo qualche anno ho frequentato scuola di cinema e tv e ho cominciato a lavorare nel mondo della produzione. Ho lavorato tre anni con Piero Chiambretti come autore del programma “Markette”. Nel 2007 fui autore di “ Modeland” con Johnathan del Grande Fratello e intanto organizzavo eventi. Nel tempo sono riuscito a costruire un’agenda grossa e nutrita, con la quale ho molte connessioni in Italia e con la quale riesco ad arrivare un po’ ovunque in ambito cinema e tv, ma anche in altri. Sognavo di fare l’attore, poi però mi sono reso conto che stare dietro la telecamera mi piaceva di più.

pietro_mereu_regista
Pietro Mereu


Ti senti più regista, attore o autore?
Mi sento un po’ di tutto. Ho studiato lirica tre anni, quindi mi sento anche tenore. Il talento lo riconosco perché ho conosciuto e fatto tante cose. Il talento si riesce a percepire proprio per esperienza e conoscenza.

La Sardegna è un punto di partenza o di arrivo? 
Beh, direi di partenza…

Non solo Sardegna…Nel documentario “Disoccupato in affitto”, realizzato con Luca Merloni, vesti i panni del disoccupato “uomo-sandwich”. Ti aggiri per nove città italiane, da nord a sud, con un cartellone addosso, alla ricerca di lavoro. Le reazioni delle persone che incontri sono le più disparate ma sempre molto solidali e empatiche. Ho recepito un messaggio da questo documentario che, come forma d’arte, sembra voglia comunicare:” Ricordati che se non trovi lavoro, come ultima spiaggia c’è quella che ti rassicurerà sempre: l’arte.” Dico bene?
Esatto! Erano realmente otto mesi che non lavoravo. Abbiamo cominciato a girarlo nel 2010 ed è uscito nel 2012, arrivando secondo nelle classifiche Coming Soon. Inoltre è stato premiato al Rome Indipent Festival, nel 2011. Ricominciare da lì mi ha dato una energia pazzesca: mi ha fatto credere nuovamente in me e nelle mie attività. Nella vita bisogna sempre mettersi in gioco e non devi avere paura di far vedere chi sei realmente. 
Sapevo comunque che in quel momento non ero più disoccupato. Ero di nuovo, a modo mio, sul palcoscenico. Umanamente è stata un’esperienza pazzesca e commovente, perché tutti in quelle città, chi più chi meno, mi ha mostrato solidarietà. Ancora conservo quel cartello che per me ha una forte simbologia, quasi cristica. Magari un giorno sarà conservato in un museo. C’è chi ancora dopo anni guarda il documentario e mi comunica quanta speranza gli dia ancora.

Dopo il documentario cosa è successo?
Da quel momento la mia notorietà è cresciuta con varie interviste e recensioni, tra tv e giornali. Feci un reportage con Mediaset rientrando negli ambienti tv. Poi da allora ho cominciato a girare i miei documentari con la mia casa di produzione, la Ilex Production, nata nel 2015. Nel 2013 cominciai a girare “Noi non molliamo: facce e storie dell’alluvione”, sull’alluvione di Olbia. Nel 2015 ho cominciato a realizzare “Il Clan dei ricciai” e sempre in quell’anno avevo ideato un programma intitolato “Senza regole”, sul calcio storico fiorentino, per Rai 4. Ho fatto anche un programma per Real Time con Enzo Miccio. Lo scorso inverno ho girato un pilota con l’attrice Norma Vally, intitolato “Artisanal journey with Norma Vally” che ora stiamo provando a venderlo in America, mentre in Italia, a dicembre, sarà trasmesso “I Manager di Dio”, su tv2000.

Girerai un sequel di “Disoccupato in affitto”?
Mi hanno proposto di fare il “disoccupato in affitto” in giro per l’Europa ed effettivamente l’idea è allettante, anche perché lo farei con un’altra consapevolezza. Il problema oggi non è l’occupazione ma è la delocalizzazione proposta dalle aziende che vogliono abbassare i costi del personale e non creano avvenire sicuro per le persone. La situazione è veramente esplosiva e c’è un divario assurdo tra vertici e dipendenti.




Hai la grande capacità di saper trasmettere attraverso i tuoi documentari, toccanti e potenti nell’immagine, l’umiltà e la forza dei sardi, come pure il fascino di quelle attività che stanno scomparendo…
Ti ringrazio. Ne “Il Clan dei ricciai” racconto appunto la storia di questi ex detenuti che si ricostruiscono una vita dopo il carcere, attraverso l’attività del ricciaio. Sia questa attività che quella degli stessi centenari ne “Il Club dei centenari”, intesi come pastori; sia in “Senza regole”, il programma sul calcio fiorentino e lo stesso “Disoccupato in affitto”, dove impersonifico l’uomo-sandwich, raccontano di mestieri che stanno estinguendosi. Lo stesso vale per” Artisanal journey with Norma Vally”, dove metto in risalto l’artigianato italiano che sta man mano scomparendo. Questo è il mio contributo per tramandare alle future generazioni ciò che magari non faranno in tempo a conoscere. É un modo per salvaguardare cose e persone preziose.



Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi numerosi progetti in cantiere?
Ho un progetto che sto sviluppando con una grande casa di produzione. Non posso dire nulla ma… incrocio le dita!


Terminata l’intervista, termina anche il gioco. In verità non mi sono mossa da dove abito e Pietro non si è mosso da Milano. Questo viaggio, fantasioso e virtuale, mostra l’efficacia e la sensibilità che le opere di questo regista trasmettono. Per (far) viaggiare, a volte, bastano creatività e talento.




club_dei_centenari_pietro_mereu
Un ultimo saluto a Rosa Secci "Zia Rosina", protagonista ne "Il Club dei Centenari".
clan_dei_ricciai_pietro_mereu
Foto dal set "Il Clan dei Ricciai"

i_manager_di_dio_pietro_mereu
Foto dal set "I Manager di Dio" che andrà in onda a Dicembre su TV2000
Altra foto dal set de "Il Club dei centenari"



Il "Demonio" di Brunello Rondi


Il regista Brunello Rondi descrisse la figura della masciara ne "Il Demonio", pellicola iniziatrice del genere horror demoniaco italiano

Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia e su Il Roma


Nella cultura lucana, la “maciara”, è la strega, il demone, la fattucchiera ma anche la guaritrice. 
L’antropologo e storico Ernesto de Martino, si occupò a lungo della cultura del Sud Italia e le sue numerose spedizioni in Lucania gli permisero di conoscere più a fondo quel mondo mistico rituale, mostrandone gli aspetti più spaventosi e curiosi. De Martino, non solo si occupò di documentare la realtà di alcune affascinanti credenze del sud vive e attive sino alla metà del ‘900, ma contribuì alla realizzazione dell’ horror-neorealista “Il Demonio”, del 1963, del regista Brunello Rondi.
Rondi, collaboratore di Federico Fellini nella sceneggiatura de “La Dolce Vita” e in “8½” e fratello del celebre critico di cinema Gian Luigi Rondi , non solo è stato uno sceneggiatore e regista coraggioso per un Italia del tempo impregnata di bigottismo, ipocrisia e censura, ma lo fu per mostrare il suo credo attraverso un proprio conflitto, dove il male  e il bene non avevano confine, mescolandosi in nome della salvezza.
“Il Demonio”, racconta il dramma della maciara Purificata, nome che tutto poteva presagire tranne che legami col demonio. I nomi legati alla cultura cristiana erano e sono da sempre in voga al sud, senza che questi proteggano minimamente dal contatto col male e  dalla superstizione. La giovane maciara, infatti, stringe un patto col demonio attraverso una fattura che incateni per sempre a sé il suo amato Antonio (Frank Wolff), il quale di lì a poco avrebbe dovuto sposare un’altra donna.
Purificata, interpretata dall’incantevole e straordinaria attrice Daliah Lavi, che vedremo nello stesso anno recitare nell’horror “La Frusta e il corpo” di Mario Bava, è una donna, una fattucchiera, ed è la protagonista principale che spacca la bruttezza di una civiltà contadina arretrata, sporca e ignorante con l’aspetto di una bellezza quasi ultraterrena, con la sola colpa  di essere innamorata e visionaria. Rondi, tuttavia, andò oltre i confini lucani se si pensa agli attori nella realtà: scelse l’amore tra due attori come la Lavi e Frank Wolff, tra una israeliana e un ebreo, per sottolineare il conflitto religioso e politico che si tradurrà nel sempiterno conflitto tra anima e corpo.
Purif, a causa della fattura lanciata ad Antonio, facendogli bere il suo sangue e dunque incatenandolo a sé, è essa stessa vittima non di fatture ma di fatti : più volte violentata, picchiata, emarginata dagli uomini, sopravvive solo grazie alla natura e con gli spiriti di essa, che sole possono darle conforto, in una umanità che le nega la vita (ma non l’esistenza). Il film è ambientato in un contesto rurale del ‘900. Il verismo verghiano de “La Lupa” si mescola ad un horror dai lineamenti tanto marcati quanto crudi. 
Il bianco e nero utilizzato, il montaggio di Mario Serandei e la fotografia di Carlo Bellero, aumentano quel senso di realtà e orrore che si respirava nelle piccole comunità rurali di un tempo. Tale stile e la location materana saranno di ispirazione per il film “Il Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini.

daliah levi masciara strega
Daliah Levi in una scena del film

Il demonio è Purificata, che assume le sembianze di un essere indifeso al cospetto di un credo religioso mescolato al paganesimo di rituali e credenze scaccia male e malocchi. 
Gli unici che sembrano avere apparente pietà della poveretta sono il prete  esorcista e le suore del convento, ove lei si recherà autonomamente dopo essere fuggita alla lapidazione dei contadini inferociti. 
La Lavi riuscì - e tutt’ora riesce ogni volta - a personificare la  Donna, il  vero mezzo del demonio, in modo struggente. Le scene di violenza sul suo corpo aumentano il senso di agonia e pathos nei confronti della ragazza. Lo spettatore non può altro che sperare possa liberarsi dal male degli uomini e dal male dell’entità che la impossessa. 
La bellezza violata della donna e il fermare il corso naturale del (suo) sentimento, corrispondeva a fermare il corso della natura, ben evidenziato nella scena del rituale scaccia temporale da parte dei contadini. 
Per proteggersi, tutti erano a modo loro ‘masciari’.
É doveroso citare altri due capolavori cinematografici, collegati strettamente al film: “The Exorcist” di William Friedkin (1973), dove verrà ripresa la “camminata a ragno”  della protagonista durante l’esorcismo e “Non si sevizia un Paperino” (1972) di Lucio Fulci, ove la maciara, Florinda Bolkan, ricalca l’estetica di Purif, come ricorda  le violenze subite. Inoltre, Fulci ambienta il film nel contesto rurale di una Lucania arretrata e riprende il personaggio dello zio guaritore: lo zio Francesco legato alla Maciara-Bolkan e lo zio Giuseppe, personaggio realmente esistito, documentato e pubblicato da De Martino in “Sud e Magia” (1959), il quale violenterà Purif, dopo averle praticato riti scaccia demonio. 
Da considerare, inoltre, che nello stesso anno uscì “il Diavolo” di Gian Luigi Polidoro, la commedia con protagonista Alberto Sordi.
Tante le tematiche affrontate da Rondi: dall’ignoranza contadina che sconfigge il male con altro male e scaglia pietre, perché sa di aver peccato; la bellezza (dell’attrice), mediterranea, esile e sporca, che si trasforma durante l’esorcismo in una creatura terribile ma non mostruosa, attraente nel suo essere indifesa; la questione dei manicomi, ovvero dove non arriva a rinchiudere la religione, vi arriva la scienza, ribaltando il concetto del “se non riesco a curarti con le medicine, ti curo con la religione, dato che non v’è spiegazione”. Anche il potere dell’amore si ribalta: se nelle favole a lieto fine l’uomo risveglia la propria donna amata con un bacio e con l’amore, qui l’inganno dei “giusti” si fa carne e sangue: Antonio, dopo essersi premurato di purificare - non a caso - l’aria con il fuoco, per scacciare le streghe, come si fa per allontanare le bestie, incontra Purif per strada. Lei perdutamente innamorata, cede allo sguardo dell’uomo e dopo l’amore, egli la uccide, così togliendo per sempre il suo maleficio e l’incombenza di essere lui il vero traditore della moglie. 

Rondi, nonostante questa visione protettrice e pietosa nei confronti della donna, non vuole essere paladino di un certo femminismo, anche in forza del fatto che questo film diede il via alla sua carriera nell’exploitation. In questo caso specifico, “Il Demonio" vuole essere una lungimirante panoramica sugli isterismi, sacrifici e lapidazioni di massa nei confronti dell’incomprensibile e del non accettabile e, la donna, ne è l’involucro magnetico.

Zinaida Nikolaevna Giuppius e il femminismo in via di trasformazione (o estinzione)

Girando per i tiepidi vicoli di Roma, mi decido a entrare in una di quelle piccole librerie in via di estinzione che ancora resistono. Lì, ...