martedì 15 maggio 2018

Lina Wertmüller e "i Basilischi” di ieri, oggi… e domani?



L'etimologia di "Basilisco”, deriva dal greco e latino, indicando  letteralmente il “piccolo re”, il “reuccio”. 
Nel significato popolare, inoltre, il Basilisco rappresentava un animale leggendario che, secondo le credenze medioevali, procurava la morte solo col loro sguardo, incutendo terrore.
Ma in quel 'Basilisco', potremmo farvi rientrare più fedelmente, come significato, gli abitanti della Basilicata, come pure il nome di un certo tipo di lucertole che vivono sempre appollaiate sugli alberi, distanti dagli specchi d’acqua, ove vi si tuffano solo all’occorrenza.

La regista Lina Wertmüller, nel 1963, scrive e dirige il suo primo film, “I Basilischi”, descrivendo uno spaccato della situazione sociale della Basilicata e della Puglia, in quel tempo. Il film fu girato in gran parte in Basilicata, a Potenza, a Palazzo San Gervaso, ed anche in Puglia, ad Andria e Minervino Murge, ambientandolo nell’entroterra pugliese. Le musiche del maestro Ennio Morricone trasportano totalmente in ciò che fortemente sembra appartenere alla regista, sia per luoghi che tematica. 
Influenzata dalla palestra cinematografica del maestro Federico Fellini, con il quale finì di lavorare da poco in "8½”, la Wertmüller, si preoccupò di far trasparire già il suo stile e la sua arte, grazie anche alla presenza di uno dei più celebri direttori di fotografia, Gianni Di Venanzo, che lavorò per Fellini nei film “L’Amore in città”, “ 8½” e  “Giulietta degli Spiriti”.
Prese d’esempio il neorealismo felliniano de “I Vitelloni” , realizzato dieci anni prima, e, seppur con qualche imperfezione, riuscì a portare a compimento questo film che profuma tanto di amarezza, quanto di lungimiranza e dunque di attualità. All’inizio, l’opera, doveva intitolarsi “Oblomov delle Puglie”, “Oblomov” come il protagonista ozioso dello scrittore russo Ivan Aleksandrovič Gončarov.
Ritrae fedelmente la realtà della comunità del sud di provincia, le abitudini, l’usanza della controra, dove tutti si abbandonano al riposo post-prandiale: così inizia a narrare  la voce fuori campo femminile. Da cornice al marcato provincialismo e dialetto dei personaggi, dal risultato machiettistico, si consumano drammi e questioni socio politiche di grande spicco e importanza per l’epoca, come il divorzio.




Tre ragazzotti fannulloni di buona famiglia, i tre “reucci” del posto, Antonio, Francesco e Sergio, tra i quali spicca un giovane Stefano Satta Flores, sono la chiave di quel mondo che da un lato vorrebbe il progresso e dall’altro lo nega, per una più consapevole libertà. Alcuni la chiamano ostilità e pigrizia. Lucertole immobili, al Sole.
Esattamente quello che accade ancora oggi e non solo al sud, ma in ognuno di noi. 
I cambiamenti, quando arrivano, sono eccitanti. Ma sappiamo veramente sacrificare la nostra cultura e le nostre tradizioni per qualcos’altro? La nostra sicurezza?
In molti hanno detto che questo film vuole raccontare il degrado del sud, la situazione socio-economica immobile, tanto quanto la mentalità limitata che spesso i tre giovani ragazzi lamentano, dunque una situazione retrograda, “medioevale” e negativa. 
I tre giovani maschi, però, non fanno nulla per cambiarla e non vogliono, anche quando le porte della “Dolce Vita” romana si spalancano per un futuro migliore e accattivante. 
Fortunatamente, il film si può guardare in doppia prospettiva, quando la mente non è istituzionalizzata e incarcerata nella cultura imposta.
L’uomo è un essere libero, è un animale cacciatore di femmine, ed così singolare vedere questa forma primitiva di condotta sociale, sulle note della struggente "Cantata Basilisca", con Fausto Cigliano, unita alle note del “Let’s Twist Again” di Chubby Checker, cantata da un bambino, che ne prende quasi timidamente e teneramente il sopravvento.
Ma non solo. É il primo manifesto di ribellione della regista nei confronti delle ideologie del padre, un ex nobile avvocato, giornalista e socialista simpatizzante del Duce, che per la regista potrebbe essere stato motivo e spinta a far risaltare la scena dell’arrivo dei ricchi, progrediti e ‘comunisti’ romani nel paese retrogrado, dove si preferiva un certo fascismo all’emancipazione femminile e progressista. 
Non a caso il film fu girato proprio nel paese paterno. La Wertmüller vide lungo anche sulla questione un po’ confusa tra comunismo e fascismo, già all’epoca, quando invece tutto sembrava così chiaro e diviso, ripetto ad oggi.

Se il neorealismo viscontiano metteva il futuro nella mani di un bimbo, come nel finale di “Rocco e i suoi fratelli” e ha mostrato come l’emancipazione dal sud al nord portasse a un cambiamento e al suo dramma, la Wertmüller mostra che la moda, le novità, il progresso arrivano lo stesso, attraverso la donna, anche se in modo un po’ frammentato e violento, un po’ timido ma determinato. Dipende dall’uomo decidere se mantenere la propria libertà, che per il progresso è limitatezza; oppure abbracciare il progresso, che per la libertà del “far nulla”, è una condanna.
La regista sembra vestire i panni della voce fuori campo, dunque della madre e contadina che vuole aprire un piccola impresa; ma anche quelli della impellicciata romana, interpretata da Flora Carabella, che scatta fotografie e si ribella ai "retrogradi fascisti"; della ragazzina appassionata di libri gialli; della prostituta; della moglie stanca e della suocera suicida. In realtà, veste i panni di tutte le donne del film e le donne sono tante. 
I protagonisti sono apparentemente gli uomini, ma “I Basilischi” è un manifesto femminista e femminile, palese sulla condizione del maschio e sulla ribellione della donna, della sua emancipazione, che si fa strada piano piano, silenziosa. Ne valse il premio “Vela D’’Argento” al festival di Locarno.
E’ un canto malinconico di un luogo mai vissuto ma sentito, nel profondo, dalla regista. 
Termina con la voce femminile fuoricampo, che con la sua dolcezza descrive le chiacchiere, le favole di Antonio che parla di Roma; la leggenda di quei mostri che incutono così tanto terrore all’emancipazione, all’apertura. Se ne parla come in un sogno lontano, un ricordo perpetuo da custodire ma non vivere. Si protegge ciò che si è e a cui si crede si sia destinati essere.
 Quei rettili che stanno appollaiati sugli alberi, distanti dagli specchi d’acqua. Questi mostri che se solo provassero a specchiarsi, morirebbero.
 Lo sguardo pietrificato, crudo e duro che dovremmo avere ancora oggi, attraverso la lodevole regia italiana, quando guardiamo lo specchio di ciò che ancora siamo o crediamo di essere.

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