sabato 1 settembre 2018

Zinaida Nikolaevna Giuppius e il femminismo in via di trasformazione (o estinzione)

Girando per i tiepidi vicoli di Roma, mi decido a entrare in una di quelle piccole librerie in via di estinzione che ancora resistono. Lì, sulla soglia, ho incontrato Zinaida Nikolaevna Giuppius. Sembra il nome di una strega e, in effetti, strega lo è. O meglio, lo fu. Nacque a Belëv, nel 1869. Capace di trasformarsi dinanzi a me da ‘Madonna decadente’ a ‘Diavolo’; da ribelle ad ammiccante intrattenitrice di un tempo, da passato a presente: da donna a uomo e… viceversa. Zinaida mi spiega ciò di cui sono sempre stata alla ricerca: il tema dell’androginia, della philosophia perennis, il rapporto donna-uomo fra parti esterne, il ruolo della donna e dell’uomo nelle loro parti più intime, interne ed eterne; l’alchimia che in ognuno di noi presenzia. Siamo esseri umani, prima di donne e uomini. Siamo esseri completi ma le norme sociali ci insegnano ad essere una cosa o l’altra, in base all’atteggiamento e in basi a questioni meramente anatomiche. Così comincia a raccontarmi della sua vita, delle sue opere letterarie e teatrali, delle sue gesta anticonvenzionali e irriverenti, anche e soprattutto dal punto di vista politico, in quella Russia bolscevica e autocratica che faticava ad accettare qualcosa di alieno e innovatore. Destrutturare l’apparente semplicità della vita, scorporandola in qualcosa di più alto e complesso, per approdare all’unicità infinita ed eterna dell’esistenza. Questo era il messaggio, chiaro.

Il rapporto maschile /femminile, uomo/donna vengono affrontati dalla Gippius non come divisione, ma come unione dei due poli, ponendo dapprima in chiave mistica una visione antitetica allo stagnante realismo materialista. La sua conflittualità e la sua lotta interiore verso la “perfezione” dell’essere e verso "l’impossibile", pone la scrittrice non solo come poetessa simbolista ma come una delle filosofe più illuminate e uniche per quel tempo. 

Ed ecco apparire tra le mie mani un libro sottile: “L’Eterno Femminino”. Racchiude tre suoi racconti, che in quella libreria ho potuto trovare nella vecchia edizione tascabile della Biblioteca del Vascello: "Gli Innamorati", "La Bestia" e "L’Eterno Femminino" (racconto con titolo omonimo della raccolta). 
“Eterno Femminino” fu espressione coniata dal Goethe, nel Faust. Questo “femminino" non si riferisce puramente alla donna ma simboleggia il femminile come "accompagnatore delle anime dei defunti e veicolo, memoria eterna nel tempo : madre e morte." Una pura palingenesi. Il femminino è traghettarore e, con l’eterno maschile, se uniti, “portano in alto” verso “l’essere umano”. Tale tematica, Gippius la sviluppa per tutta la sua carriera letteraria.

"Gli Innamorati" è un racconto  sul matrimonio e sui risultati infelici che la coercizione del sacramento imponeva al tempo. 
"La Bestia” narra la storia di una donna addestrata per essere una perfetta intrattenitrice e donatrice di amore. Il suo aristocratico atteggiamento la condurrà a scontrarsi con la più ruvida e cruda realtà dell’Uomo, innamorato di lei, ma respinto dalla sua sincerità. La chiamerà Bestia, perché le bestie non bevono, mentre l’uomo, con le sue debolezze e le sue necessità, deve sacrificarsi e dunque, per disperazione, ubriacarsi e uccidere la bestia dentro di lui: l’amore, la donna. La Bestia, inoltre, non è altro che il grande senso di colpa caratteristico della Russia, con una certo eco dovstoeskjiana da cui la Gippius ne fu influenzata.
"L’Eterno Femminino", ultimo racconto, narra dell’apertura mentale dell’uomo nei confronti della donna che lo abbandona e il finale soprendente del racconto, spiega esattamente il conflitto-unione uomo/donna, maschile/femminile. Inoltre, “madre Russia", presenzia sempre. Anche laddove non si vede chiaramente, allude all’Unione, all’Amore, alla spiritualità, esattamente quanto alla politica e alla religione. 

Zinaida Gippius


L’Amore ha pervaso tutta la carriera mistico-artistica-sentimentale della Gippius. Anche quando il rapporto con il marito, il celebre simbolista russo Dmitrij Merežkovskij, divenne a tre con il giovane critico omosessuale Dmitrij Filosofov. L’amore era Uno, ed era libero quanto conflittuale (ripudiandone tuttavia l’omosessualità, quanto la procreazione) ed era una continua ricerca della spiritualità nel suo totale anticlericalismo e anticonvenzione. 
Profondità di pensiero, maestria formale, un’accentuata spavalderia e blasfemia ( “Ma come Dio/io amo me stesso”) le sono universalmente riconosciute. Come pure le è riconosciuto il fatto di avere formato, a livello di ritmo e metrica, tutto il simbolismo a venire. Zinaida era Antonio Krajnij, quando si calava nei panni del critico. Non solo fu poetessa ma critico letterario, autrice di teatro, di sei libri di racconti, di romanzi, delle sue memorie pietroburghesi. Combattente nei confronti dell’autocrazia prima e del bolscevismo poi, nel 1919 fuggì in Polonia per poi raggiungere dopo poco Parigi, dove morì nel 1945, in totale abbandono e povertà. Venne anche in Italia, dove soggiornò a Roma, Firenze, Forlì e Venezia con il marito. L’Italia si rivelerà importante per Merežkovskij, il quale si occupò a lungo della figura di Leonardo da Vinci per la realizzazione dell’opera “La Rinascita degli Déi : Leonardo Da Vinci.” Dall’Europa, la Gippius affronterà anche il tema dell’emigrazione.
Portatrice di una nuova religiosità e di una nuova sessualità, in lei il confine femminile e maschile si (con)fondono, creando una figura androgina, che la condurranno per tutta la vita a fuggire dalle convenzioni e da una imposta concezione di femminilità. 
Zinaida è unione di aspetti e prospettive di vita che tutt’oggi ci appartengono e dalle quali solo apparentemente sono tollerate ma non sono veramente accettate e capite. Se l’uomo e la donna fossero Uno, saprebbero comprendersi e sublimare l’Amore, come l’Arte, non nella possessione di un oggetto; non concepirebbero nemmeno il tradimento, ma nell’altruismo e nell’elevazione di essi a sentimenti che oggi come oggi ci appaiono possibili solo in altri mondi. 
“A me è necessario quello che non c’è al mondo”, dice Zinaida. Conscia del momento divisorio tra donne e uomini, in questa contemporaneità pseudo-moderna, ove questo aspetto di unione è stato superato dalla comparsa tecnologica, aggiunge: “Se le donne dedicassero la cura e le forze consacrate alla libertà “femminile” alla liberazione di tutta l’umanità, in questa lotta conquisterebbero anche la propria e non la riceverebbero dagli uomini, ma la otterrebbero al loro fianco”. Zinaida sa e vede tutto, anche i nuovi robot che soppianteranno l’umano e che già lo stanno facendo. Forse anche oggi le sarebbe necessario ciò che non esiste al mondo, come è stato necessario a me vivere brevemente ma intesamente il (suo) passato, come un futuro da seminare nuovamente, in chiave diversa e contemporanea ma pur sempre essenziale per non salutare per sempre l’umanità, in cui credo ancora. 
E scompare, in una nuvola di tabacco profumato.


articolo pubblicato su "Il Roma"

Quel Visconti che ha fatto grande la Basilicata


Retrospettiva su “Rocco e i suoi fratelli”, film del celeberrimo e indimenticabile regista Luchino Visconti. Paride Leporace racconta dettagli e curiosità sul film e sulla sua realizzazione.


“Rocco e i suoi fratelli”, rappresenta una pietra miliare del cinema italiano; una meta difficilmente raggiungibile e replicabile, come tutti quei film di Visconti riassunti e definiti nel suo ”cinema antropomorfico”, decretando il regista come uno tra i più illuminati della storia del cinema. 

Parliamo di quel cinema italiano, immortale, che grande ha fatto l’Italia e che ha descritto ed esportato le nostre peculiarità, usi e costumi in giro per il mondo. 
“Rocco e i suoi fratelli” non è (solo) un film; occorre adottare la parola “cinema” quando ci riferiamo a un’opera come questa. 
La fatica nell’assorbire un film del genere è notevole, quando si ha una certa sensibilità verso temi che Visconti seppe dipingere magistralmente nel periodo del boom economico italiano, come il tema della borghesia e della modernità, nei loro aspetti più oscuri e fragili ed il rapporto fra bene e male.
Con il boom economico, i nostalgici frammenti di guerra e resistenza venivano spazzati via da una ricostruzione economica che, ben presto, sarebbe divenuta nuova guerra sociale e dramma.
Così, questa pellicola di Visconti divenne - ed è tutt’ora- non solo manifesto dell’immigrazione meridionale al nord; non solo il ritratto fedele della Basilicata ma uno strumento potentissimo che ancora scuote gli animi: la descrizione della borghesia con le sue fragilità e debolezze, i suoi inganni e quella verità che è ancora tanto scomoda da digerire. 
Se è vero che dagli anni ’60 la società è cambiata notevolmente, così come la Milano di Visconti, fatta di fabbriche e fumo ma culla di una vena intellettuale ben più progredita di quella di oggi, è vero pure che guardando e riguardando “Rocco e i suoi fratelli”, ci accorgiamo di come venga descritta fedelmente la realtà anche odierna, con i suoi chiaro-scuri, bianco e nero, luce e buio tipici della società, della vita e dell’uomo in costante progresso e successo. 
Ma il progresso, come il successo, hanno un prezzo. Tale questione Visconti ben la definisce attraverso Rocco Parondi, come pure attraverso i suoi quattro fratelli. Quei cinque fratelli che la loro madre definisce come le “cinque dita della mano”; quella madre e donna tipica del meridione di un tempo, ispirata non solo dalle donne del sud ma anche dalle fattucchiere lucane e che, come le “madri” presenti nei film di Visconti, seguirà l’archetipo della madre protettiva che al contempo pare quasi vendere/sacrificare i suoi figli per raggiungere lo scopo economico/sociale, in totale ingenuità.
Così si comporta la meravigliosa attrice greca Katina Paxinou nei panni di Rosaria Parondi: indossa il lutto del marito, portando una spilla con il volto del coniuge, per poi, col crescere dei film e dei figli che raggiungeranno un grado sociale più elevato, sbarazzarsene. Lei, chiamata dai milanesi “ signora” grazie alle fatiche e al successo dei figli, sembra quasi non avere più bisogno della presenza del marito, neanche sotto forma di spilla, essendo riuscita a fare la “scalata sociale”. Superficialmente, il togliersi la spilla, risulta la fine del lutto ma quella sorta di protezione dall’alto indossata fino a un certo punto, (si noti che porta la spilla fino a che non cambiano casa) veniva sostituita dalla scalata sociale, dai soldi, dall’essere benestanti e dall’arrivare ‘nell’alto del paradiso borghese’, tutto grazie al sacrificio dei figli: anche la tristezza veniva spazzata via e si perdonava tutto, persino la delinquenza del figlio Simone.

Alain Delon nei panni di Rocco Parondi


Visconti, con tutta onestà e smacchiando la sua posizione da ogni sorta di ipocrisia, disse già all’epoca che non v’erano registi originali, non v’erano registi che rappresentassero il realismo che intendeva. Era necessario che “gli uomini fossero dentro le cose e non le cose per se stesse”, questo per evitare l’effetto “ replica” e l’effetto bozzettista.
La ricetta viscontiana, oltre a questo principio fondamentale che presumeva studi antropologici specifici, prevedeva ingredienti necessari e unici alla realizzazione di questo film, così complicata a causa della censura per le scene forti di violenza. 
Tra i primi ingredienti, gli attori: un giovane Alain Delon al suo esemplare debutto nella veste del protagonista Rocco Parondi; un più noto Renato Salvatori, conosciuto già per il film “Poveri ma Belli”, qui calato nella parte drammatica del fratello Simone, riuscendovi alla perfezione; una acerba Claudia Cardinale, già brillante; la meravigliosa Anne Girardot, nei panni della femme fatale Nadia, tanto forte quanto fragile e sfortunata; la già citata attrice greca strepitosa, Katina Paxinou; i grandi Paolo Stoppa nei panni dell’allenatore Cerri e Roger Hanin in quelli dell’ex pugile Duillio Morini e tanti altri attori che hanno contribuito alla realizzazione di questo prezioso spaccato di Italia in pellicola. 
E tra gli altri ingredienti, troviamo i viaggi di Visconti per descrivere la Basilicata e le ispirazioni che questa terra ha dato, non solo a Visconti, ma a tanti altri registi dopo di lui. 

Rocco Parondi, era lo “spirito” nobile, dolce e  passionale del sindaco di Tricarico e poeta lucano Rocco Scotellaro e la “carne” del pugile Rocco Mazzola. Lo spirito di Scotellaro espresso nell’anima poetica, nobile e dolce di Parondi e la “carne” espressa dalla fisicità di Mazzola, il quale compare anche come cameo nel film. Rocco Parondi, dunque, assume la veste di “santo”, sacrificato dalla scalata sociale e dunque dalla famiglia per una buona reputazione, la cui carne e spirito si fusero col sangue della sua amata, in momenti diversi, ma entrambi ad opera della violenza del fratello Simone.
Su certi aspetti più tecnici e precisi del film, mi sono confrontata con il critico cinematografico, scrittore, nonché direttore della lucana Film Commission, Paride Leporace, il quale mi ha concesso nuovamente una piacevole intervista:

Di "Rocco e i suoi fratelli" si è parlato tanto. Grazie al suo restauro e al reintegro delle scene violente che furono tagliate dalla censura, oggi si può godere appieno dell’opera che si avvicina di più al volere di Visconti. Viene ritenuto uno dei film fondamentali del regista, oltre che pietra miliare del cinema. Da critico, ti chiedo : perché occorre guardare questo film e quanta importanza ha?

“Rocco e i suoi fratelli è una pietra miliare del cinema per numerosi motivi. Rispetto alle questione che accennavi, sulla borghesia, noi abbiamo una riflessione di Visconti che poggia su una storiografia molto significativa che va a toccare la letteratura più colta, come i Malavoglia  di Verga, di cui abbiamo un approccio di neorealismo diretto e dialettico; Il Ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori: il racconto biblico di Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann; come pure l’eterna compenetrazione tra bene e male ne l’Idiota di Fëdor Dostoevskij e il romanzo Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi. E poi la questione del sud, dell’immigrazione e del boom economico. Visconti pone, per questioni indagate sul campo, un approccio con la Basilicata che egli sceglie come regione chiave per raccontare la storia di questo straordinario film. 
É, inoltre, la celebrazione del debutto di un giovanissimo Alain Delon, che si rivela per la prima volta come attore straordinario, senza dimenticare i collaboratori numerosi: da Peppino Rotunno alla fotografia, Pietro Tosi ai costumi, lo scenografo  Pasquale Festa Campanile, che è lucano, e darà un grande contributo al film.
All’epoca, siamo in presenza del flusso migratorio del sud verso il nord e notiamo anche la presenza della figura dell’operaio, molto cara al Visconti di quel tempo. Questo grande esodo biblico, viene racchiuso nella cornice di questo straordinario film e racconto, partendo dall’esperienza familiare con il ruolo della madre, molto ben delineato, ed anche con gli altri lucani che abitano nel palazzo. É interessante e curioso notare che la madre lucana è interpretata da una grande attrice greca , la Paxinou. E sempre un’altra brava attrice greca, Irene Papas,  interpreterà una donna lucana nel film Cristo si è fermato a Eboli, di Francesco Rosi. Sono donne e attrici forti, dai lineamenti dolci e pungenti, che lasciano il segno, come le donne lucane.
Ritengo, anche, che Rocco e i suoi fratelli abbia influenzato molto altri film a venire, come il Demonio di Brunello Rondi, Il Vangelo secondo Matteo di P.P. Pasolini e tutto il decennio di cinema italiano che scese in Basilicata ad ambientare i suoi film."

Luchino Visconti


 Scendiamo nei particolari del film: la sceneggiatura. L’intento di Visconti era quello di portare la Basilicata nel film e dato che non ci riuscì per motivi di lunghezza, ce l’ha fatta lo stesso e con una fedeltà e forza unica. Cosa puoi dirmi di quella parte tagliata?

“ Il film aveva un prologo scritto. C’era tutta una prima parte scritta in Basilicata e doveva iniziare lì, con la morte del padre e il funerale. Poi, chiusa questa prima parte c’era la parte dell’emigrazione. Siccome Visconti non tralasciava niente, tra il ’59 e ’60 fece una spedizione in Basilicata, documentata da fotografie fatte emergere dalla ricercatrice e  professoressa Teresa Megale, la quale ha ritrovato all’istituto grafici questo corpus che ricostruisce un po’ tutte le tappe. Assieme pure agli scatti del fotografo americano di scena, Paul Ronald, vi sono oltre 300 scatti effettuati tra Matera e Pisticci che documentavano questa base lucana del film. Il film fu molto condizionato dal clima culturale che viveva un intellettuale e un cineasta comunista come Visconti, poiché conosceva molto bene la vicenda del sindaco-poeta lucano Rocco Scotellaro. Questo pesa anche molto sulla attribuzione del nome del protagonista Rocco Parondi, anche se non è l’unica. Poi ci sono gli studi antropologici di Ernesto De Martino, che erano iniziati qualche anno prima e le ricognizioni fotografiche della Basilicata di grandi fotografi a partire da Henri Cartier-Bresson, che era stato proprio in quei luoghi. L’elenco è anche abbastanza lungo relativamente ai fotografi che visitarono la Basilicata. Il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, aveva dato una certa visione della civiltà contadina, che Visconti rielabora e riporta nelle vicende produttive. 
Il produttore Goffredo Lombardo, era molto preoccupato per questo film che si allungava, su cui lavorò per un po’ di tempo anche Vasco Pratolini, suo amico. Per questo motivo, chiamò Pasquale Testa Campanile, sia per la spedizione che per la riscrittura. Poi si decise di iniziare il film, anche per decisione di Visconti, tagliando questa parte lucana che non fu mai girata, ma trasportando perfettamente lo stesso la Basilicata in tutto il film. La ricostruzione degli ambienti poggerà su quelle fotografie fatte tra il 59 e 60, come gli usi, le abitudini, le contaminazione di lessico e canzoni lucane presenti nella colonna sonora e anche il richiamo della visione pugilistica strettamente connessi al pugile potentino Rocco Mazzola. Rocco Mazzola era realmente di Potenza e nell’elemento di racconto, quando il fratello di Rocco che è il primo pugile ad entrare in campo in questa sorta di trasformazione sociale  e combatte per una società milanese, si trova di fronte a una società di Potenza da cui l’incontro di boxe degenererà in una rissa con i lucani, i quali accusano i loro conterranei di tradimento. Ci sono elementi molto diffusi e significativi che interessano questo film relativamente alla Basilicata.
Ricordiamo una cosa fondamentale: Visconti era milanese, conosceva bene la sua città. Il suo studio per la realizzazione del film, è stato sull’inserimento delle realtà degli immigrati del sud al nord, sulle periferie. Lui portava dentro di sé le stigmate della cultura borghese in maniera profonda, mescolandola alla sua adesione al partito comunista. Era un personaggio decisamente interessante, oltre ad essere uno dei più grandi maestri del cinema."



Parliamo di Rocco e parliamo delle ispirazioni che Visconti trovò per la creazione di questo incredibile personaggio. Intanto cominciamo con l’etimologia del nome Rocco, che significa “roccia” e questo nome, se è vero nomen omen, si adatta davvero bene al suo personaggio. Ma sappiamo pure delle vere ispirazioni, relative a Rocco Scotellaro e Rocco Mazzola. C’è solo questo o c’è di più?

“Per costruire la figura di Rocco e per il suo nome, ci sono più cose a monte. Visconti, innanzitutto, durante il sopralluogo in Basilicata, si rende conto e  prende spunto dal culto di San Rocco, molto sentito in Basilicata e, infatti, il nome Rocco è il più diffuso in Basilicata. Non è una coincidenza che in una delle case ci sia la statua di San Rocco davanti alla quale la madre va a pregare. Poi v’è questa forte influenza della figura di  Rocco Scotellaro, uomo di cultura e politica. Non a caso c’è un brano di un dialogo in cui Rocco Parondi racconta quando al carcere portarono i contadini che fecero la rivolta: quello descrive l’episodio in cui Scotellaro fu arrestato e quindi è un riferimento diretto. Senza dubbio, già senza riferimenti diretti c’è un tributo a Scotellaro, dato che Visconti ne era molto rapito. E poi l’influenza del pugile Rocco Mazzola. Per fare questo Visconti e un suo amico frequentarono molto le palestre di Milano di quegli anni. L’ambiente del pugilato lo raccontavano, documentandosi bene. Era un ambiente di outsider e la vicenda di Rocco Mazzola era coeva di quegli anni, essendo campione. Unendo questi addendi, nasce la figura di Rocco Parondi. Ricordo inoltre che l’ambiente del pugilato, come quello dei calciatori, riuniva i ceti sociali più bassi che speravano nel successo e nella crescita economica, grazie a quegli sport."

Per approfondire la storia di Rocco Mazzola, rimando all’articolo minuzioso del giornalista Leonardo Pisani: 


Qual è stato il tuo personaggio preferito del film?

“Il personaggio che ho preferito è Rocco. Delon identifica in sé la Lucania in maniera perfetta. Tuttavia, il vero personaggio positivo è il fratello operaio, Ciro, che incarna la cultura operaia di chi non ha mai una deviazione e ha un vero e proprio inserimento nella vicenda. Però parteggio per Rocco. Sono molto affascinato dalla dolcezza di Rocco e dal suo saper scoprire i sentimenti verso la donna contesa e da come approda alla boxe, totalmente contraria al fratello Simone, anche se, in qualche modo, fa simpatia pure lui… le canaglie ci fanno sempre simpatia e ci attraggono.”


La maestria di Visconti, oltre a tutto quello che abbiamo appena descritto, è stata anche l'eliminazione dei confini. Quando Simone combatte contro la società di Potenza, non compie un tradimento bensì  una sostituzione necessaria per arrivare successo, eliminando così ogni campanilismo. E quando Rocco dovrà battersi all’estero, Visconti compie l’operazione importante e sottile di portare i lucani nel mondo, riproducendo così  la carriera del pugile Rocco Mazzola. Attraverso lo sport si eliminano i confini geografici e si compie la doppia esportazione/emigrazione della cultura lucana ovunque, nonostante come evidenzi Paride Leporace: “ Rocco non dimentica la sua terra e invita il fratello minore Luca a tornare nella sua terra, facendo la promessa di tornarci, un giorno”. L’operaio sarà la figura più positiva di tutto il film, quella che tiene le redini della situazione. Il personaggio di Ciro è rigoroso, silenzioso ma è il più insidioso, perché è il borghese che verrà descritto da Pasolini relativamente all’educazione dei figli degli “operai” e alla questione culturale in Italia. 
L’altra operazione curiosa e rivelatrice che compie Visconti, è di inquadrare il piccolo Luca, nel finale, come speranza e futuro. 

E quel Luca, nella realtà si chiama Rocco, proprio come il nome che ha fatto grande questo film e che ha permesso all’anima della Basilicata e alla sua parte più profonda e descrittiva di essere esportata in tutto il mondo, grazie a Luchino Visconti.

martedì 15 maggio 2018

Lina Wertmüller e "i Basilischi” di ieri, oggi… e domani?



L'etimologia di "Basilisco”, deriva dal greco e latino, indicando  letteralmente il “piccolo re”, il “reuccio”. 
Nel significato popolare, inoltre, il Basilisco rappresentava un animale leggendario che, secondo le credenze medioevali, procurava la morte solo col loro sguardo, incutendo terrore.
Ma in quel 'Basilisco', potremmo farvi rientrare più fedelmente, come significato, gli abitanti della Basilicata, come pure il nome di un certo tipo di lucertole che vivono sempre appollaiate sugli alberi, distanti dagli specchi d’acqua, ove vi si tuffano solo all’occorrenza.

La regista Lina Wertmüller, nel 1963, scrive e dirige il suo primo film, “I Basilischi”, descrivendo uno spaccato della situazione sociale della Basilicata e della Puglia, in quel tempo. Il film fu girato in gran parte in Basilicata, a Potenza, a Palazzo San Gervaso, ed anche in Puglia, ad Andria e Minervino Murge, ambientandolo nell’entroterra pugliese. Le musiche del maestro Ennio Morricone trasportano totalmente in ciò che fortemente sembra appartenere alla regista, sia per luoghi che tematica. 
Influenzata dalla palestra cinematografica del maestro Federico Fellini, con il quale finì di lavorare da poco in "8½”, la Wertmüller, si preoccupò di far trasparire già il suo stile e la sua arte, grazie anche alla presenza di uno dei più celebri direttori di fotografia, Gianni Di Venanzo, che lavorò per Fellini nei film “L’Amore in città”, “ 8½” e  “Giulietta degli Spiriti”.
Prese d’esempio il neorealismo felliniano de “I Vitelloni” , realizzato dieci anni prima, e, seppur con qualche imperfezione, riuscì a portare a compimento questo film che profuma tanto di amarezza, quanto di lungimiranza e dunque di attualità. All’inizio, l’opera, doveva intitolarsi “Oblomov delle Puglie”, “Oblomov” come il protagonista ozioso dello scrittore russo Ivan Aleksandrovič Gončarov.
Ritrae fedelmente la realtà della comunità del sud di provincia, le abitudini, l’usanza della controra, dove tutti si abbandonano al riposo post-prandiale: così inizia a narrare  la voce fuori campo femminile. Da cornice al marcato provincialismo e dialetto dei personaggi, dal risultato machiettistico, si consumano drammi e questioni socio politiche di grande spicco e importanza per l’epoca, come il divorzio.




Tre ragazzotti fannulloni di buona famiglia, i tre “reucci” del posto, Antonio, Francesco e Sergio, tra i quali spicca un giovane Stefano Satta Flores, sono la chiave di quel mondo che da un lato vorrebbe il progresso e dall’altro lo nega, per una più consapevole libertà. Alcuni la chiamano ostilità e pigrizia. Lucertole immobili, al Sole.
Esattamente quello che accade ancora oggi e non solo al sud, ma in ognuno di noi. 
I cambiamenti, quando arrivano, sono eccitanti. Ma sappiamo veramente sacrificare la nostra cultura e le nostre tradizioni per qualcos’altro? La nostra sicurezza?
In molti hanno detto che questo film vuole raccontare il degrado del sud, la situazione socio-economica immobile, tanto quanto la mentalità limitata che spesso i tre giovani ragazzi lamentano, dunque una situazione retrograda, “medioevale” e negativa. 
I tre giovani maschi, però, non fanno nulla per cambiarla e non vogliono, anche quando le porte della “Dolce Vita” romana si spalancano per un futuro migliore e accattivante. 
Fortunatamente, il film si può guardare in doppia prospettiva, quando la mente non è istituzionalizzata e incarcerata nella cultura imposta.
L’uomo è un essere libero, è un animale cacciatore di femmine, ed così singolare vedere questa forma primitiva di condotta sociale, sulle note della struggente "Cantata Basilisca", con Fausto Cigliano, unita alle note del “Let’s Twist Again” di Chubby Checker, cantata da un bambino, che ne prende quasi timidamente e teneramente il sopravvento.
Ma non solo. É il primo manifesto di ribellione della regista nei confronti delle ideologie del padre, un ex nobile avvocato, giornalista e socialista simpatizzante del Duce, che per la regista potrebbe essere stato motivo e spinta a far risaltare la scena dell’arrivo dei ricchi, progrediti e ‘comunisti’ romani nel paese retrogrado, dove si preferiva un certo fascismo all’emancipazione femminile e progressista. 
Non a caso il film fu girato proprio nel paese paterno. La Wertmüller vide lungo anche sulla questione un po’ confusa tra comunismo e fascismo, già all’epoca, quando invece tutto sembrava così chiaro e diviso, ripetto ad oggi.

Se il neorealismo viscontiano metteva il futuro nella mani di un bimbo, come nel finale di “Rocco e i suoi fratelli” e ha mostrato come l’emancipazione dal sud al nord portasse a un cambiamento e al suo dramma, la Wertmüller mostra che la moda, le novità, il progresso arrivano lo stesso, attraverso la donna, anche se in modo un po’ frammentato e violento, un po’ timido ma determinato. Dipende dall’uomo decidere se mantenere la propria libertà, che per il progresso è limitatezza; oppure abbracciare il progresso, che per la libertà del “far nulla”, è una condanna.
La regista sembra vestire i panni della voce fuori campo, dunque della madre e contadina che vuole aprire un piccola impresa; ma anche quelli della impellicciata romana, interpretata da Flora Carabella, che scatta fotografie e si ribella ai "retrogradi fascisti"; della ragazzina appassionata di libri gialli; della prostituta; della moglie stanca e della suocera suicida. In realtà, veste i panni di tutte le donne del film e le donne sono tante. 
I protagonisti sono apparentemente gli uomini, ma “I Basilischi” è un manifesto femminista e femminile, palese sulla condizione del maschio e sulla ribellione della donna, della sua emancipazione, che si fa strada piano piano, silenziosa. Ne valse il premio “Vela D’’Argento” al festival di Locarno.
E’ un canto malinconico di un luogo mai vissuto ma sentito, nel profondo, dalla regista. 
Termina con la voce femminile fuoricampo, che con la sua dolcezza descrive le chiacchiere, le favole di Antonio che parla di Roma; la leggenda di quei mostri che incutono così tanto terrore all’emancipazione, all’apertura. Se ne parla come in un sogno lontano, un ricordo perpetuo da custodire ma non vivere. Si protegge ciò che si è e a cui si crede si sia destinati essere.
 Quei rettili che stanno appollaiati sugli alberi, distanti dagli specchi d’acqua. Questi mostri che se solo provassero a specchiarsi, morirebbero.
 Lo sguardo pietrificato, crudo e duro che dovremmo avere ancora oggi, attraverso la lodevole regia italiana, quando guardiamo lo specchio di ciò che ancora siamo o crediamo di essere.

mercoledì 27 dicembre 2017

Quel fischio dei Coppola che partì da Bernalda



A tu per tu con Michele Salfi Russo, cugino di Francis Ford Coppola e regista del premiato docufilm “ The Family Whistle”, racconta le origini della famiglia Coppola.


Conosciamo meglio Michele Salfi Russo, autore e regista del docufilm “The Family Whistle”. Quando si è acceso il “sacro fuoco dell’arte”? Raccontaci le tue origini e i tuoi percorsi…
L’arte fa parte di me da sempre. É una condizione naturale non solo mia ma di tutta la mia famiglia: la creatività, la curiosità, la voglia di leggere fra le righe quello che mi si presenta davanti, fanno da sempre parte di me. Il mio percorso artistico nasce e si sviluppa in un habitat naturale, che è quello di casa mia. Mio padre è stato un grande storyteller, sia come maestro elementare, sia nella sua vita privata. Ho preso da lui questa capacità di raccontare storie. Mia madre, invece, è colei che ci ha sempre spronato a inseguire i nostri sogni. La fortuna di avere avuto genitori così viene completata con la figura dei miei fratelli: Gaetano, un talento straordinario, un artista versatile;  Riccardo, un bravissimo musicista; mia sorella Lella, brava scultrice e arredatrice, sposata con un musicista, a Londra. Come ti dicevo, una famiglia di artisti… 


Come dicevi, la tua è una famiglia di artisti. Questo lo spieghi bene nel tuo documentario “The Family Whistle”, in cui racconti la storia della famiglia Coppola e di come tu sia riuscito a ricostruire l’albero genealogico a partire dal 1775, ricongiungenti con loro. Sei cugino di Francis Ford Coppola. Come ci si sente ad essere cugino di uno dei più grandi registi della storia del cinema? Ci racconti esperienze, sensazioni ed emozioni provate, stando al suo fianco?
La mia nonna paterna era cugina di primo grado con Agostino Coppola, il nonno di Francis. Scopro proprio partendo dal cinema, come luogo, di essere suo parente e nel docufilm racconto tutto questo. Era difficile ricucire la tela della famiglia Coppola, ma in 25 anni di ricerche, sono riuscito a completare l’albero genealogico di tutta la famiglia e in otto anni a realizzare il docufilm. Un giorno, rimettendo a posto vecchie lettere, trovai quella di Carmine Coppola e chiesi a mio padre spiegazioni su questa nostra parentela con loro. Da lì cominciai il mio grande percorso di ricerca, nonostante le difficoltà a ricostruire tutto quel tempo perduto. Quando iniziai le ricerche, negli anni 80, non c’era internet, non c’era modo immediato per contattare le persone. Fu per caso, ascoltando una conversazione tra il mio regista e un suo amico, che riuscii ad avere finalmente modo di contattare Francis. Scrissi a Francis il primo Aprile del 1988. Lui mi rispose a Giugno, scrivendomi che mi avrebbe raggiunto a Cinecittà, l’autunno seguente. Finalmente ci incontrammo e fu un incontro molto emozionante. Conobbi suo padre, sua madre, suo fratello Agostino, il papà di Nicholas Cage. Gli dissi: “Francis è ora che tu torni a Bernalda”. Nella Primavera dell’ 89, venne a Bernalda, gli diedero la cittadinanza honoris causa e, in tutto questo percorso di ricongiungimento con luoghi e persone, non feci altri che alimentare la sua curiosità, che rimane ancora oggi viva, dopo venticinque anni dalla nostra reunion. Rcominciò a frequentare Bernalda e comprò questo palazzo ottocentesco, Palazzo Margherita, facendone un resort, dove anni dopo si sarebbe sposata sua figlia, la regista Sofia Coppola. Grazie alla realizzazione del documentario siamo riusciti a conservare la memoria storica, che tutti dovremmo tenere ben stretta, indipendentemente dal pregio, dalla celebrità della famiglia a cui apparteniamo. Ho semplicemente raccontato la storia di una famiglia di origini italiane con l’arte nel sangue, che è riuscita ad esportarla in tutto il mondo.


L’idea di realizzare un docufilm del genere, da dove nasce? C’è stato un evento scatenante?
Per scrivere un film occorre ci sia una “spina dorsale” e l’idea nasce davanti a un bicchiere di vino, mentre raccontavo a Francis le storie di nonno Agostino. Lui mi disse: “ Sei tu che dovresti fare il film perché sei tu che conosci bene la storia, hai talento e mi piace come la racconti” . Così cominciai a girare. In occasione del matrimonio di Sofia, proiettai per la prima volta il premontato del documentario. Vidi Francis commosso e mi disse: “ Michele, possiamo mostrarlo al mondo” e così abbiamo fatto. La sua approvazione mi ha ripagato di tutto. Tutto questo è un sogno che è diventato realtà, come mamma mi ha insegnato. Agostino, diceva: “Fate la vostra vita ma non perdete mai la musica”; mia mamma diceva: “Fate la vostra vita ma non smettete mai di sognare”.

Vedendo il documentario si capisce il legame profondo che hai con Bernalda. Cosa rappresenta per te?
A Bernalda c’è una grande possibilità di respirare il tempo. C’è la possibilità di non avere fretta, di avere il tempo di osservare le cose, di contemplarle e di viverle. Credo Bernalda sia stata una grande opportunità per sviluppare la nostra creatività in famiglia.



Hai dimostrato un esordio notevole con questo docufilm, ricevendo, nel 2016, il primo premio come miglior fotografia al Boston International Festival. Hai lavorato a fianco di Francis ne Il Padrino - parte III e con Giuseppe Tornatore in Bàària. Che cosa ti hanno insegnato due registi di quel calibro?
Sono due registi enormi e da loro si impara davvero molto. Lavorare al loro fianco è stata un’ esperienza memorabile. Sono registi dotati di grande professionalità e umanità, che amano gli attori con cui lavorano, che costruiscono insieme all’attore il film e i personaggi. Non sempre si ha la fortuna di lavorare con registi del genere…

Quali sono i tuoi registi di riferimento e a quale tipo di cinema senti appartenere di più?

Ci sono grandi registi ovunque, ognuno nel proprio genere. Se dovessi scegliere direi Frank Capra, che ha saputo raccontare magistralmente il sogno americano e il sogno in genere; poi Kurosawa, Kubrick e tanti altri. Sono molto legato al neorealismo, quella verità assoluta, quelle immagini forti erano sensibilmente appetibili e mi emozionano sempre. Mi piace leggere tanto e di tutto, ascoltare tanto e tutto. Attingo da tutto. Ogni linguaggio è diverso e interessante. 




Intorno a te hanno gravitato artisti di un certo livello per creare il docufilm, come ad esempio tuo fratello Gaetano Russo, uno tra gli scenografi italiani più bravi. Chi è per te Gaetano, oltre ad essere tuo fratello, e che ruolo ha avuto nella creazione del film?
Gaetano è la luce, un vero artista. Riesce a dare pennellate di colore anche sulla mia tavolozza, se sto scrivendo o girando un film. Ha sempre intuizioni geniali e riesce a dare un senso a tutto, ad animarlo. Ci siamo sempre aiutati l’un l’altro. Gaetano è una grande opportunità, oltre che un grande fratello. Al docufilm, invero, ha contribuito tutta la famiglia: da Gaetano nell’estetica, nella grafica, scenografia ed ambientazione, a Riccardo per le musiche sino a tutti i consigli ricevuti dagli altri membri. L’idea grafica è di Gaetano: l’albero genealogico che da cinque generazioni diventa pentagramma esprime esattamente ciò che lega la nostra famiglia : la musica


Hai altri progetti? E se sì, ci puoi svelare qualcosa in anteprima?
Ho finito di scrivere una sceneggiatura che vorrei girare in Basilicata, fra i sassi di Matera, tratta da una storia realmente accaduta un secolo fa e che si muove attorno ad un personaggio cardine di questa storia che, guarda caso, è un sognatore. É un personaggio che pensava, attraverso l’arte, di risollevare la condizione miserevole in cui versava la Lucania in quel tempo. I lucani sono sognatori per antonomasia. 

Un ultima domanda, la più significativa: cosa rappresenta  per te il fischio? Ti capita di usarlo realmente?

Sì, conservo il mio fischio, un po’ per gioco, un po’ per istinto. Lo uso con mio figlio come faceva papà con noi per richiamarci se era pronto il pranzo, se eravamo al mare o per strada giocare. Il fischio è musica, è un suono fatto da poche note, che distingue una famiglia dall’altra; che distingue una cultura, una forma mentis, se così si può dire, da una famiglia all’altra. É senso di appartenenza del nucleo familiare e della comunità. Dentro al fischio ci sono tutte le sfumature di paura, consigli, raccomandazioni, spensieratezza, gioia. É un mezzo vero e proprio di comunicazione che sostituisce le parole. In quelle tre note senti tutto. É musica e, d’altronde, nella nostra famiglia, non poteva essere mezzo migliore.

domenica 10 dicembre 2017

Non si sevizia (un) Paperino: quando Fulci raccontò la strage di Bitonto


Tra il 1971 e 1972, a Bitonto, cinque bambini  furono trovati in un pozzo, senza vita. Ancora nessun colpevole per la tragedia, da allora. 
Sono passati quarantacinque anni e, come tutti i delitti irrisolti, vengono lasciati marcire nelle carte e nella memoria occultata da altri eventi, soprattutto quando si parla di un luogo ove la povertà faceva da padrona, rendendo quasi naturale e legittima l’uccisione di esseri umani. 
Tuttavia, il genio di Lucio Fulci, prolifico regista romano, capace di  “terrorizzare” pubblico quanto tutti i generi di cinema da lui toccati, con il suo stile crudo e schietto prese ispirazione da quel fatto terribile e realizzò il capolavoro “Non si sevizia un Paperino”. 


Il film fu, ed è tuttora, decretato come la summa stilistica di Fulci, ritenuto fondamentale per il giallo italiano, ove convivevano, con sapienza - nell'habitat horror- neorealismo, commedia, thriller e spy story,  Il regista riuscì a smascherare - o forse meglio a creare - quell’assassino mai trovato, con una chiave apparentemente anticlericale e immorale e apparentemente facile. Le ambientazioni furono adattate in un contesto rurale e povero dell’estremo sud lucano e tale scelta, costituiva una novità nel panorama del giallo cinematografico di quel tempo.


L'opera inizia con la ripresa del paesaggio di Accendura, luogo dal nome fittizio, adattato dal nome di Accettura, un paesino in provincia di Matera. Fulci, tuttavia, girò poche scene in Basilicata e molti esterni furono girati in Puglia e a Pietrasecca, in provincia dell'Aquila, nonostante l’anima verace e grezza di personaggi e ambienti, rispecchiassero in toto quella lucana.
Il paesaggio di verdi colline interrotte dal ponte di cemento  sembra squarciare la morbidezza e l’innocenza della natura. Tale contrasto di elementi fu coadiuvato dal compositore Riz Ortolani, le cui colonne sonore univano dolcezza della melodia alla crudeltà delle immagini.
L’inizio del film mostra il disseppellimento dello scheletro di un neonato da parte della “maciara” di Accendura, interpretata da una straordinaria Florinda Bolkan, già nota per la sua parte precedente nel giallo cult  “Una lucertola con la pelle di donna”, del 1977. 




Nella scena successiva compaiono dei bambini, in chiesa, intenti a pregare. Per quei bambini, la preghiera è una “veste” che maschera gli impulsi ormonali di adolescenti in erba. Sono attratti dalle donne, dalle prostitute, dal sesso, dalle riviste pornografiche. Non a caso questo film fu ampiamente criticato e ritenuto vergognoso. 
Un’opera dissacrante, cruda, dove non si risparmiava nessuna pietà sulla ingenua figura del bambino, ora intento a pregare, ora intento a giocare al pallone, ora intento a essere curioso sul sesso. 
I bambini non erano più bambini e questo, Fulci, teneva a chiarirlo : dalle forti Gauloises fumate dai minori, alle pulsioni di spiare il sesso fra adulti, sino alla più particolare ripresa delle fattezze di un bambino che, avviandosi verso l’uscita dalla chiesa, non è più bambino, ma adulto. 
Si rovescia ogni stereotipo, pur mantenendo il sacrifico dei bambini della storia originale: i bambini non più bambini e, gli adulti, visti come orpelli piagnucolanti e subdoli. 
I bambini, tuttavia, sono punibili dall’ipocrisia e bigottismo ma sono pianti nella loro morte, esattamente come accade agli adulti: negati dalla vita, amati dalla morte. 
L’operazione del regista, infatti, fu proprio il superamento del pensiero del tempo, il superamento degli stereotipi sul possibile assassino ed anche del superamento anticlericale, oltre che di ceto sociale. 
Imputabili di reato di omicidio sono vari personaggi: il guardone Barra, ben presto scagionato; lo zio Francesco (George Wilson); la “maciara" che si autodichiara colpevole della morte dei primi due bambini attraverso la magia nera e la bionda e ricca Patrizia, una ragazza confinata nel luogo per scappare alle tentazioni della droga, da cui non uscirà e che a causa di quella ne era indagata.
Il personaggio di Patrizia, interpretata da Barbara Bouchet, fu molto discusso e fu oggetto di controversie e denunce. 



La scena in cui la  Bouchet si presenta nuda e ammiccante davanti a uno dei ragazzini, fu considerata di una morbosità e scandalo unici per quel tempo. Proprio a causa di ciò, Fulci fu incriminato ma ben presto scagionato, in quanto non vi fu nessuna scena di nudo davanti al piccolo attore. Fu utilizzato, per i controcampi, Domenico Semeraro, affetto da nanismo. 
Curioso notare che il cognome Semeraro era anche quello reale della nonna di tre dei bambini uccisi realmente nella strage di Bitonto, indagata ma poi scagionata.
Se i bambini non sono più bambini e se nessuno degli indiziati si rivelava vero colpevole, allora chi poteva esserlo davvero? 
Se i bambini non sono più bambini, gli adulti prendono il loro posto. Le reazioni degli adulti sono talmente senza nervo e assenti nella difesa. Persino le forze dell’ordine non hanno potere.  Persino la magia nera non ha più potere. Tutta l’autorità e le superstizioni delle cariche visibili e invisibili non hanno più valore. 
Nessun adulto, tranne il giornalista di cronaca nera, interpretato dal compianto Tomas Milian, è in grado di difendersi: gli adulti sono indifesi ma il giornalista no. 
Il giornalista è una figura risoluta e a tratti sfrontata, che diventerà eroe, trasformandosi esso stesso in assassino del vero colpevole. Tutto questo a causa della testa di un paperino di plastica, che non era altri che una metafora oggetto per indicare il bambino, o meglio, i bambini uccisi e che diede pure non pochi problemi a Fulci. Infatti, il film, doveva intitolarsi “Non si sevizia Paperino”. La Disney ebbe a ridire sul titolo ma con uno stratagemma grafico mascherarono un poco quel “un”, trovando così una soluzione per far rimanere in qualche modo il titolo originale. Manca citare la figura fondamentale: il prete Don Alberto. La parte fu affidata a Marc Porel, a cui interpretazione fu giudicata una delle migliori della sua carriera. Don Alberto era figlio di Aurelia (Irene Papas) e fratello della piccola Malvina. 


Don Alberto (Marc Porel)


Quel prete onnisciente nei confronti degli cittadini, giovane e dal bell’aspetto, che si lascia smascherare nelle sue debolezze cedendo alla sigaretta offertagli da giornalista. Chi trasgredisce una regola, potrebbe commettere qualsiasi altro peccato. Tale affermazione si, forse, si veste meglio da domanda... 
Fulci avverte lo spettatore già con quel piccolo particolare che, infatti, si rivelerà nel mostrare la colpevolezza del prete. Lui era l’assassino dei bambini; lui che non trasgredisce mai nei confronti del sesso o delle donne da guardare, ma uccide per riportare tutto a un certo candore e "ordine". 
Con la scena finale del combattimento tra Milian e Porel, il regista mostra la trasformazione del volto del prete, che precipita dal burrone, in caduta libera: un Lucifero dalle sembianze disumane a testa in giù, in picchiata, nel vuoto, ove la macchina da presa esalta non più il volto angelico del prete ma un orribile pupazzo deformato, trasformato, ribaltato, esattamente come si trasforma il volto durante un esorcismo, mettendone in luce la mostruosità, grazie agli effetti speciali del maestro Carlo Rambaldi.
Per quel prete tormentato la morte era esorcismo dal dolore. 
Fulci veste il finale di anticlericalismo e si incarna nello spirito. A quel tempo, occorreva mostrare l’umanità anche nelle divise. 
Il rispetto per una tonaca veniva scalfita e interrotta dal regista che, in quel momento, si sostituiva all’entità giudicante: a Dio. 
Consumati i drammi, il dolore, le giustizie private e la morte, Fulci fa accettare al pubblico il gesto di difesa del giornalista portato a uccidere per salvarsi e per salvare la piccola sorellina del prete Malvina, rea, a suo modo, di aver staccato la testa a quel paperino durante l’assassinio di un bambino; lei, che sarebbe dovuta morire di lì a poco, per opera di suo fratello. 
L’etimologia del nome Malvina, che spesso troviamo in letteratura, assume diversi significati. In questo caso, è suggestivo e curioso pensare derivi dal tedesco “mal-win”, letteralmente “amica della giustizia” ed il ruolo della piccola è stato quello di fare giustizia, smascherando il colpevole dei tragici fatti. Il colpevole principale è uno ma gli assassini, in realtà, molti di più. Non dimentichiamo la terribile scena del massacro della "magiara" Bolkan, nel cimitero, da parte di alcuni uomini che con una violenza inaudita pensavano di fare giustizia. Ognuno vittima e carnefice allo stesso tempo.

Il finale riprende le dolci e verdi colline dell’inizio, non più solo cornice di un paese povero e rurale, ma cornice delle perversioni umane. 
Fulci si ispirò alla triste storia della strage di quei poveri bambini e l’ha raccontata -a modo suo- lasciando allo spettatore un amaro dubbio sulla realtà di tanti altri crimini commessi e sulla natura di quella giustizia, ove il confine tra vittima e carnefice, colpevole e innocente, divengono un vero e proprio rompicapo e riflessione profonda.

domenica 12 novembre 2017

De Scalzi-Renanera: quando la musica unisce due terre lontane

articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia


Un incontro con Antonio Deodati, produttore e musicista della band lucana Renanera e con l’artista genovese Vittorio De Scalzi, storico leader, fondatore dei New Trolls. 


Antonio, sono approdata a voi grazie all’intervista con la professoressa Patrizia del Puente, occupandomi del gemellaggio tra dialetto ligure e lucano. (Per leggere articolo precedente clicca qui)
Prima di parlare della vostra band, come è nata la curiosa collaborazione con Vittorio de Scalzi e perché?

Conobbi Vittorio nel 2009, quando ero direttore eventi di “Casa Sanremo”, ospitandolo in uno showcase. Negli anni successivi, rimanendo in amicizia, ci siamo incontrati con piacere. 
Mentre preparavo l’album omonimo del gruppo “Renanera”, con Eugenio Bennato, mi sono trovato dinanzi a una locandina di Vittorio e così ho pensato fosse davvero interessante poter collaborare con lui e infatti così è stato, ed è. Stiamo facendo un vero e proprio progetto di incontro tra due culture, quella lucana e quella genovese, scrivendo ex-novo alcuni testi e raccontando anche la storia che ci unisce, i punti di contatto come quella dei Doria, ad esempio, che hanno fondato delle cittadine come Tursi, in provincia di Matera e non a caso a Genova il Palazzo dei Doria, è detto Palazzo Tursi. Con Vittorio abbiamo intrapreso un percorso musicale, da più di un anno, e abbiamo deciso di collaborare con un pezzo che abbiamo inserito nell’altro album prodotto da l’etichetta Taranta Power, diretto da Eugenio Bennato. Il pezzo si intitola “Quante botte” e narra dei pirati saraceni che saccheggiarono sia Liguria che Lucania; raccontiamo un dolore comune di due popoli distanti tra loro ma che abbiamo trasformato in musica, dunque abbiamo musicalmente unito e liberato. In più, nell’album, ci saranno dei rifacimenti delle canzoni dei New Trolls con le nostre sonorità, ad esempio “Faccia di cane” e  “Quella carezza della sera”. Vittorio, inoltre era molto amico di De André e quindi abbiamo inserito anche pezzi come “Creuza de ma”, Peró con una particolarità, abbiamo unito la versione col testo originale con quella napoletana di Teresa De Sio, ma con le nostre sonorità etniche lucane.


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Renanera e Vittorio De Scalzi in concerto
Siete stati animatori della serata di Capodanno 2017 a Potenza e la vostra energia festosa e profonda ha pervaso tutto il pubblico. So che avete molti fan, sebbene i vostro genere non sia esattamente mainstream. Come vi rapportate sia col mercato che col pubblico?
Abbiamo molti fan che ci seguono. Le comunità lucane sono sparse in Italia e nel mondo e questo ci supporta molto. Siamo inoltre stati candidati con l’album “Renanera” al premio Tenco per gli album dialettali, arrivando alla fase finale. Io, essendo produttore discografico, conosco bene il mercato ed ho lavorato con molti artisti italiani famosi, tra cui Mango, Elena di Cioccio, Laura Valente, Marie Claire D'Ubaldo, la vocalist brasiliana Corona, Federico Poggipollini ed ho prodotto anche Unaderosa che ora è mia moglie, oltre che la voce e autrice dei testi del gruppo. La discografia è un po’ mortificante quando si investe su un progetto pop; c’è troppa inflazione, affollamento, e poca voglia di fare da parte delle etichette discografiche. La musica etnica e la world music italiana saltano a piè pari questo meccanismo dello show business, riappriopriandosi così della propria arte, musica e carriera discografica. ll pubblico è attento e  selezionato e non è un pubblico presunto: lo si deduce dalle statistiche di canali come Youtube e Spotify. Questo ci permette di vivere del nostro lavoro e di continuare con vera passione.

Quanti album avete realizzato, ad oggi?
Ad oggi, cinque album, due dei quali di prossima uscita. Uno é quello con Vittorio De Scalzi che però non ha ancora un titolo, ma col quale festeggeremo i cinquant’ anni della sua carriera, al San Carlo di Napoli per una produzione Rai5, a metà Maggio. L'altro album che stiamo quasi ultimato è “Renanera Duepuntozero" in cui abbiamo inserito e strutturato sonorità nuovissime rispetto agli album precedenti , con la collaborazione di artisti come Marcello Coleman degli Almamegretta, di cui interpretiamo un suo brano storico, “Rena Nera”. Il primo album “ Troppo Sud” fu diffuso dal Quotidiano della Basilicata e fu un omaggio ai lettori in duemila copie; il secondo, “Renanera” è stato pubblicato da Taranta Power, con la direzione artistica di Eugenio Bennato, uno dei fondatori della musica world italiana, al cui interno vi sono tantissime collaborazioni con grandi artisti, come ad esempio quella con Michele Placido, con il quale abbiamo fatto insieme a Bennato “ Brigante se more”, l’unica delle versioni ufficiali che esistono dopo quella edita dai Musicanova; Infine c’è “Renanera in concerto” dal vivo, registrato a Torino e Asti, in occasione dei concerti in Piemonte a fine 2015. Rispetto alle  altre band lucane dialettali noi investiamo molto sugli sforzi di produzione e musicali. Mia moglie, “Titti” Unaderosa, ha un forte estro fisiologico, ha bisogno di scrivere come si ha bisogno di respirare ed è questo il nostro punto di forza. Nei videoclip di solito cerchiamo di comunicare messaggi ben precisi e abbiamo incrociato questo modus operandi da mainstream applicato alla musica etnica.

Potrei definirvi come un genere "melting pot"?
Hai centrato la parola: melting pot, che è esattamente quello che nel Mediterraneo sta accadendo. Il futuro della musica è proprio questo. L’apparenza è che le guerre, quello che sta accadendo ci divida e invece no; c’è il rovescio della medaglia, ovvero l’unione di persone che vogliono stare in pace col mondo. Al di là delle politiche e dei fattori economici, le persone per loro indole tendono a stare insieme e a mischiarsi: la musica deve unire e il nostro scopo è proprio quello: unire popoli e generazioni.


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Vittorio De Scalzi, leader fondatore dei New Trolls
 Ed ora, la parola a Vittorio De Scalzi

Vittorio, cosa può dirci di questa curiosa unione tra dialetto ligure e lucano e di questa collaborazione?

Io e i Renanera lavoriamo un po’ da lontano, dato che io sto al nord e loro al sud. Abbiamo cercato dei punti di contatto dei nostri due dialetti, diversi ma simili allo stesso tempo. Simili perché hanno radici forti sul territorio e permettono un tipo di espressione diversa, diretta, immediata e musicale. I dialetti sono pieni di tronche e accenti che non ti aspetteresti nella lingua normale per cui si prestano a sequenze ritmiche, ed e’ davvero affascinante. Quando abbiamo scoperto il fatto di Tursi, è scattata la scintilla. Mi sono occupato del dialetto ligure già dalla fine degli anni ’60. Per esempio la canzone “Comme Te bella Zena" che tutti credono sia una canzone della tradizione antica ligure, invece l’ho scritta io. Il fatto di poter esportare una lingua e creare un’ unione con un altro dialetto è un’esperienza meravigliosa e intima. I Renanera sono artisti eccezionali e sono veramente felice di collaborare con loro. 

Lei era molto amico di Fabrizio De André. Può lasciarmi un ricordo del nostro grande artista? Che eredità ha lasciato?

De André ha lasciato una eredità enorme, direi che è il cantautore più cantautore di tutti. Ha abbracciato tanti generi diversi in tutto il suo excursus temporale che purtroppo si è interrotto. La cosa che mi manca è il suo prossimo disco… Chissà cosa avrebbe inventato? Ci manca perché era una persona curiosa, un artista e poeta vero, un ricercatore di suono ed emozioni. La collaborazione iniziale avuta con i New Trolls, era già fuori dalle righe per il mondo di allora, era un segno di ribellione per poi arrivare a realizzare “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, dove ho suonato alcune chitarre nel disco. Conservo un ricordo carino: da ragazzino andavo al mare al Lido di Genova e lui ci andava raramente ma quando arrivava, i miei amici che sapevano della mia passione per lui, mi dicevano “ É arrivato Faber!”  Avevo una chitarra con un altoparlante incorporato e andavo dappertutto per  fargli ascoltare le mie cose. Probabilmente ho colpito nel segno perché poi lui, pochi anni dopo, ha scritto i testi di “Senza Orario e Senza Bandiera”, il primo mio disco con i New Trolls.


L’unione della cultura ligure e lucana e quella dialettale, realizzata grazie ai Renanera e a Vittorio De Scalzi segue il desiderio della vera unità, dell’eliminazione dei confini nord -sud; aggiunge e aumenta quel senso di appartenenza che combatte ogni differenza generazionale, di classe, politica, economica e religiosa. La spirale quadratizzata dei Renanera, se guardata bene, è un labirinto aperto al mondo della musica che libera, unisce mente e cuore.


venerdì 3 novembre 2017

Liguria e Basilicata, amiche di lingua e di terra


Articolo pubblicato su Il Mattino di Foggia

A tu per tu con la professoressa universitaria Patrizia Del Puente, per parlare di salvaguardia dei dialetti e del gemellaggio linguistico Ligure-Lucano 

I dialetti, in Italia, sono un patrimonio da salvaguardare. Parleremo di questo compito di studio e tutela dei vari dialetti con la docente universitaria glottologa e linguista di fama internazionale Patrizia Del Puente, attraverso il progetto A.L.Ba. Inoltre, una curiosa scoperta di affinità linguistica tra Liguria e Basilicata, con un approfondimento dello straordinario album di Fabrizio de André, “Crêuza de mä”. 


Cos’ è il progetto A.L.Ba. e quali obiettivi si pone?

Il progetto A.L.Ba. significa Atlante Linguistico della Basilicata e si pone come un’istituzione che mira a sensibilizzare i lucani stessi all’importanza del dialetto. La Basilicata è la regione con la situazione dialettale più interessante ed è per questo che ho scelto di occuparmene. A.L.Ba. ha gli obiettivi di raccogliere tutte le lingue della Basilicata, di tutti i suoi 131 comuni e di salvaguardarle. Oggi, con internet e i nuovi mezzi di comunicazione, vengono preferite dai giovani lingue ritenute più “prestigiose” che rischiano di condizionare e affrettare un mutamento non naturale, portando a una maggiore italianizzazione e addirittura anglicizzazione dell’italiano. Non solo si perdono parole e fonemi ma si finisce per perdere strutture sintattiche e morfologiche. Questo progetto regionale si spera un giorno si estenderà a tutta l’Italia, inserendo magari nelle ore scolastiche studi sui dialetti.

Perché è importante salvaguardare il patrimonio linguistico della Basilicata come tutto il patrimonio linguistico di ogni luogo?
I dialetti sono scrigno storico e di identità; sono un serbatoio da cui l’italiano ha sempre attinto. Ricordiamo che alcuni luoghi non hanno documenti storici e non hanno nulla per ricostruire la propria identità. L’unico modo per ricostruirne identità è studiarne la lingua. Sul territorio della Basilicata vi sono colonie gallo-italiche, provenienti dalla parte più occidentali della Liguria, al confine della zona del Monferrato. Addirittura, la provenienza della Liguria è stata mediata da una puntata in Sicilia e da lì in poi, i lucani, sarebbero risaliti in Basilicata stabilendovisi. Questo è accaduto in particolare nelle colonie di Piceno e di Tito. Occorre dire e interessare le persone che i lucani vengono dalla Liguria e che hanno avuto un contatto con la cultura siciliana; questo lo possiamo fare grazie al fatto che queste lingue si siano salvate nel tempo.

Dunque la Basilicata e la Liguria potremmo definirle “ Amiche di lingua”?
Assolutamente si. Liguria e Basilicata sono terre di accoglienza e, la Liguria, per certe zone della Basilicata, come già accennato, ne è madre di lingua.



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Fabrizio De André

Questo fatto interessante si collega a uno dei cantautori più importanti della storia della musica italiana: il genovese Fabrizio de Andrè, il quale si deduce abbia avuto un rapporto stretto con la Basilicata grazie all’album “Anime Salve”, in particolare grazie alla canzone “Ho visto Nina volare”. Nel testo c’è un riferimento diretto alla cultura lucana del “masticare e sputare” delle contadine lucane. Questo legame tra  Liguria e Basilicata porta a chiederci se, da punto di vista linguistico/dialettale all’interno di album totalmente dialettali e straordinari come “Creuza de Ma”, ci siano affinità tra dialetto ligure e lucano e se sì, quali?

Tutti i dialetti presentano affinità perché derivano dal latino volgare. Per quanto riguarda il discorso della Basilicata, dobbiamo pensare a vari tipi di dialetti e sicuramente i dialetti che si parlano nelle colonie gallo italiche condividono, oltre al lessico, anche tratti fonetici che appartengono al ligure. Uno per tutti è il fenomeno della lenizione, che marca molto il genovese. In Crêuza de mä, ci sono molte parole che perdono l’antica ’t’ latina e la ‘ch' latina e questi sono tratti che troviamo nei dialetti ad esempio di Potenza, di Pietragalla, Pignola, Picerno, Tito, ecc., come pure il troncamento di altri participi. Quando De André è venuto qui, dunque, si sarà sentito in famiglia. De André era un grande e fine osservatore della lingua e lo si vede in tutti i suoi testi, non solo in quelli dialettali dell’album. Credo abbia percepito la Basilicata come una sorta di eden: il ligure che si incarna nei dialetti meridionali e i dialetti meridionali che si sposano col ligure.


Crêuza de mä è un’opera straordinaria, decretata da artisti famosi come David Byrne, leader dei Talking Heads, come una tra le opere migliori mai composte, non replicabile, sia per melodia e ricercatezza dei suoni. Ma ancor più eccezionale è l’operazione linguistica di De André, che ha esportato il dialetto ligure verace in mezzo mondo. Quale fu l’operazione vera di De André dal punto di vista linguistico nell’album?

De André ritrovava suggerimenti linguistici di ogni parte del mediterraneo dentro al dialetto ligure. Non dimentichiamo che ‘la lingua di Genova’ è la figlia di una grande repubblica marinara che in molti modi è entrata in contatto con le altre realtà linguistiche del mediterraneo. L’interferenza linguistica porta a contaminazione, che ne sono arricchimenti. De André non ha cercato di arricchire il dialetto verace dei testi ma ha riscontrato la presenza di altre lingue nel dialetto. Ha cercato le prove di quella mediterraneità che il genovese gli regalata costantemente; cercava la conferma di quel mondo mediterraneo che era tutto racchiuso nella lingua genovese. 
Nei racconti di  Crêuza de mä c’è una cultura e realtà che è genovese, ma può esser di qualsiasi altro paese del mediterraneo. De André voleva scrivere poesie del mediterraneo e voleva dimostrare che il mediterraneo si incarnava nel genovese.


Oltre a Crêuza de mä, quali altri album sarebbero importanti da conoscere e su cui fare riferimento per avere una panoramica precisa e interessante sui nostri dialetti?

C’è una serie di album dialettali sardi; ci sono una serie di album dialettali come quelli del primo Pino Daniele e ci sono album di musica popolare dilettale salentini e lucani, molto interessanti. C’è un gruppo lucano di musica popolare, gli “Arena Nera”, che hanno attuato un progetto fantastico, traducendo in dialetto lucano tutti i testi di De André con un risultato bellissimo. 

Liguria e Basilicata gemellate anche in questo.

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